Conferenza stampa: Lo chiamavano Jeeg Robot

“Questo film nasce dalla collaborazione con il soggettista Nicola Guaglianone, autore anche delle sceneggiature dei miei cortometraggi Tiger boy e Basette. Diciamo che la trasmissione televisiva Bim bum bam ci ha fatto da balia, quindi siamo andati a ripescare ciò che ci emozionava quando eravamo bambini. Abbiamo portato il cinema americano a casa nostra e, facendo riferimento alle maschere cucite a mano presenti sia qui che in Tiger boy, diciamo che lo abbiamo cucito a mano. Abbiamo creato personaggi veri per porli in un contesto assurdo”.

Parole di  Gabriele Mainetti – attore visto, tra l’altro, ne Il cielo in una stanza (1999) di Carlo Vanzina e nella serie televisiva Un medico in famiglia – a proposito del suo esordio registico Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), in arrivo nelle sale cinematografiche il 25 Febbraio 2016, distribuito dalla Lucky red di Andrea Occhipinti; il quale, durante l’incontro con la stampa tenutosi a Roma, ha giustamente osservato che si tratta di un film che era difficile da capire sulla carta.

Perché quella di Enzo Ceccotti, entrato in contatto con una sostanza radioattiva e ottenuta una forza sovrumana proprio come il Melvin della saga The toxic avenger prodotta dalla Troma, non è una classica vicenda di supereroi, ma un esplosivo miscuglio di criminalità di periferia proto-Romanzo criminale, situazioni da fumetto e sottotesti sociali perfettamente calato in una romanità tutt’altro che invadente.

Del resto, Guaglianone ha aggiunto: “L’idea era quella di partire dal Neorealismo per unirlo agli anime giapponesi e, appunto, Bim Bum Bam. Poi, ovviamente, il titolo richiama quello de Lo chiamavano Trinità e Jeeg rappresenta l’elemento pop”; mentre il co-sceneggiatore Roberto Marchionni, detto Menotti, ha precisato: “Per quanto riguarda l’elemento politico, c’era bisogno di un mondo reale in cui inserire cose assurde che facessero presa sulle emozioni umane. Era il periodo in cui la Grecia stava finendo nel tritacarne, c’erano manifestazioni e io ho alcuni parenti lì”.

E, se Claudio Santamaria ha raccontato di aver effettuato un grande lavoro fisico e mentale e di aver dovuto prendere venti chili per interpretare il protagonista che ricordasse un orso, Luca Marinelli non ha potuto fare a meno di spiegare come è stato generato il suo malvagio personaggio dello Zingaro: “Il Joker lo avevo in mente sì e no. C’è stata una costruzione di questo personaggio. Il mio primo incontro con il cinema fu a sette anni con Il silenzio degli innocenti, dove c’era questo personaggio problematico che mi affascinava. Inizialmente non mi sentivo così cattivello e Gabriele, invece, non mi faceva così matto”.

Un cattivo il cui momento di trasformazione si ispira dichiaratamente a quello analogo di Ballata dell’odio e dell’amore (2010) di Álex de la Iglesia, a differenza della costruzione dei personaggi influenzata da Léon (1994) di Luc Besson.

Personaggi comprendenti anche la non del tutto sana mentalmente Alessia di cui si prende cura Ceccotti, interpretata dalla Ilenia Pastorelli che, in maniera esilarante, ha ricordato come è avvenuto il suo coinvolgimento nel cast del film: “Nicola Guaglianone ha avuto occasione di vedermi tramite il Grande fratello in tv. L’agente che avevo allora mi disse ‘Lo sai che ti vogliono per un provino al cinema? Ma, secondo me, non riesci a superarlo’. Poi, nella sceneggiatura leggevo i nomi di questi personaggi giapponesi e abbiamo pensato si trattasse di camuffamenti di quelli veri per un film sulla politica. Gabriele mi ha chiesto se sapevo piangere veramente e mia madre mi ha ricordato che avevamo un mutuo da pagare dicendomi ‘E fattelo un piantarello’. Quindi, da quel momento mi sono concentrata sul mutuo per affrontare il ruolo”.

Ruolo che Mainetti ha elogiato osservando come la Pastorelli metta nella recitazione del suo, del vissuto, prima di proseguire: “Gli effetti speciali non si devono vedere, odio i film in cui si vedono. Per quanto riguarda Lo chiamavano Jeeg Robot, c’è stata una grande preparazione ed i supervisori sul set, perché spesso la risoluzione dei problemi si affida ala post-produzione. Aggiungo che, perché un film venga visto, deve parlare di noi. Spaccherei le gambe a chi mi dice ‘Ho fatto un film di genere ma vorrei intellettualizzarlo’. Il film di genere deve essere tale e basta. Ora l’importante è che vada bene, poi vedremo se farne un sequel”.

Oltretutto appoggiato da Santamaria, il quale, non ha potuto mancare di esporsi: “ Il cinema italiano è troppo intellettualizzato, si è perso un po’ il mestiere. Un amico fonico mi ha raccontato di aver lavorato a tre opere prime i cui registi, a volte, non sapevano come girare una scena. La critica più bella che hanno fatto a Gabriele è stato dirgli che non è uno che fa un film e si mette su un piedistallo, ma lo guarda insieme agli spettatori, perché lo fa come se lo avessero girato loro”.