Goodbye Berlinale 2018 – Ma a febbraio a Berlino non fa freddo?

Festival di Berlino numero 68. Terzo anno di Berlinale per chi vi scrive, e alle spalle una nuova avventura trascorsa ancora una volta tutta a ‘suon’ di film e caffè (rigorosamente quello del Grand Hyatt offerto dallo sponsor Nespresso perché in ogni altro luogo di Berlino un ristretto presenta dosi e il più delle volte anche il sapore di un the verde). Ma la domanda di amici, parenti e conoscenti è sempre immancabilmente la medesima: ma non fa freddo a febbraio a Berlino?! Ebbene sì, posso confermare a gran voce che a febbraio a Berlino certo non sono i caraibi e neppure le ottobrate romane, ma il freddo è secco, e con l’abbigliamento giusto (ovviamente) ci si difende bene e, in ogni caso, il clima cinefilo che si respira rende il tutto un po’ meno da ‘brivido’. Inoltre, la vera verità è che nei locali e in tutti i luoghi al chiuso come sale ed alberghi le temperature sono più che caraibiche e il vero problema non è tanto come coprirsi ma come spogliarsi.  L’atmosfera per gli appassionati della Settima Arte è comunque e in ogni caso sempre colma di piccoli bei dettagli: biglietti per il pubblico esauriti sin dal primo giorno, file sempre lunghe per l’accesso in sala, red carpet di norma piuttosto ricchi di ospiti internazionali, e un cartellone di titoli solitamente vasto ed eterogeneo, che spazia da titoli più commerciali a opere più spiccatamente festivaliere. Certo, a onor del vero c’è un altro neo, l’alimentazione tedesca ‘tende’ a essere un tantino abbondante e ricca di grassi saturi, con abuso indiscriminato di burro e maionese in primis, ma grazie al freddo di cui sopra e per solo una decina di giorni il tutto è più che tollerabile. Insomma e infine, freddo sì e a tratti anche qualche delicato fiocco di neve quest’anno, ma sempre anche tanto amore e calore per il cinema.

L’annata di quest’anno si prospettava ricca sin dalla presentazione, e già l’apertura con L’isola dei cani di Wes Anderson non ha deluso le aspettative. Applaudito e acclamato, il secondo film in stop motion del regista statunitense che vede in scena una sorta di rivoluzione canina contro il tentativo di ghettizzazione operato dai poteri forti ha convinto più o meno tutti, inclusa la giuria del festival che infine gli ha giustamente assegnato l’Orso d’Argento come Miglior Regia. A ritirare il premio un sempre formidabile Bill Murray che nella versione originale dà la voce a uno dei protagonisti canini più indimenticabili di sempre – Boss - e che ha simpaticamente ritirato il premio commentando: “Non pensavo che sarei andato a lavoro per interpretare un cane e poi tornarmene a casa con un orso”.

Tolto il premio a Wes Anderson, l’annata di quest’anno è stata però più controversa del solito dal punto di vista delle assegnazioni. Tra i premi senz’altro giusti e condivisibili c’è la Miglior sceneggiatura andata al film Museo del messicanoAlonso Ruizpalacios, brillante avventura consolidata all’interno di un toccante percorso umano ed artistico e avvalorata dall’ottima prova del sempre bravo Gael García Bernal. Altro Premio incontestabile l’Orso d’Argento per il contributo artistico andato a Elena Okopnaya per il film russo Dovlatov di Aleksey German jr. Un film che a onore del vero avrebbe meritato forse anche qualche riconoscimento in più e che ripercorre con assoluto slancio politico e artistico, e una rara bellezza della messa in scena (appunto), alcuni giorni della vita del grande scrittore e poeta del titolo Sergej Dovlatov.

Condivisibile anche Premio Miglior Attore al giovane protagonista di The Prayer, Anthony Bajon, in un film che aveva in germe numerose qualità ma che poi si perde in una deriva religiosa non particolarmente funzionale, ma che si gioca forse proprio nel cast e nell’interpretazione del protagonista alcune delle sue migliori ‘carte’.

Un Festival che infine si è affermato come un festival delle donne, grazie non solo a tanti film spiccatamente femminili che sono transitati per la manifestazione, come il nostrano Figlia Mia o il paraguaiano Las herederas di Marcelo Martinessi (vincitore tra l’altro di ben due premi: Orso d’Argento Alfred Bauer al  film che apre nuove prospettive al futuro al cinema, Orso d’Argento come Miglior Attrice ad Ana Brun), ma soprattutto grazie ai molteplici premi assegnati invariabilmente alle artiste donne. Ulteriore quota rosa, infatti, anche quella del secondo premio, Orso d’Argento  Gran Premio della Giuria, assegnato al polacco Mug della regista Malgorzata Szumowska.

Infine, a sorpresa e anche non senza contestazioni, quota rosa anche per il Premio dei premi, ovvero il Leone d’Oro Miglior Film assegnato a un titolo che in realtà non aveva convinto gli addetti ai lavori, ma che ha evidentemente convinto la Giuria composta da Cécile de France, Chema Prado, Adele Romanski, Ryuichi Sakamoto e Stephanie Zacharek e capitanata dal presidente Tom Tykwer. Si tratta del film rumeno di Adina Pintilie (che tra l’altro porta a casa anche il Premio miglior opera prima) dal titolo Touch Me not (non mi toccare), film che indaga il tema di una sessualità complessa, delicata, ‘travagliata’. Un premio consegnato di sicuro per il valore intrinseco del film e in un momento storico in cui la bivalente tematica donne sessualità è più che mai sotto i riflettori.

Al di là dei premi, come al solito tanti i film visti e diversi quelli apprezzati, in particolare tra i film che forse avrebbero meritato una qualche menzione in più: il titolo norvegese Utøya 22. Juli che propone in chiave più che realistica la drammatica ricostruzione della strage di Utoya dell’11 Luglio 2011, il toccante biopic di Gus Van Sant sul vignettista John Callahan, Don’t Worry, e il filosofico e poco compreso My Brother's Name Is Robert and He Is an Idiot di Philip Gröning.