Quando il cinema italiano raccontava la Resistenza
Oltre a libri, documenti e testimonianze di chi la Resistenza l'ha vissuta in prima persona, vi sono pellicole italiane che hanno saputo raccontarla in maniera sublime. Che il 25 aprile sia una data essenziale per il nostro Paese è una sacrosanta verità, certo, l’occupazione in Italia non terminò in un solo giorno, ma il 25 aprile del 1945 coincise non soltanto con l’inizio della ritirata da parte delle truppe della Germania nazista, ma anche di quella dei soldati fascisti della repubblica di Salò da Torino e Milano, avvenuta dopo che i cittadini si erano ribellati e i partigiani avevano coordinato un piano per riprendere le città.
Il primo film che viene in mente parlando della Liberazione è il capolavoro indiscusso di Roberto Rossellini, Roma città aperta (1945): opera che fece acquisire risonanza mondiale all’indimenticabile neorealismo cinematografico. La genesi del film ebbe inizio nel 1944 a guerra ancora in corso, quando il regista Roberto Rossellini e gli sceneggiatori Sergio Amidei e Alberto Consiglio - ai quali si aggiunse in seguito anche Federico Fellini - si incontravano in alcuni ristoranti del centro della Capitale, tra cui "Nino" in via Rasella, a pochi metri dal luogo dell'attentato del 23 marzo 1944. Da quei simposi nacque l’idea di realizzare Storie di ieri, un documentario sulla vita di don Giuseppe Morosini, sacerdote vissuto a Roma e ucciso dai nazisti. Ben presto, però, Rossellini accantonò il progetto documentaristico per dar vita a un lungometraggio a soggetto, sulla storia di una donna del popolo, madre di un bimbo e prossima al matrimonio con un tipografo antifascista, uccisa durante un rastrellamento. A questo spunto narrativo si intrecceranno poi altre vicende parallele, fino a comporre un affresco in cui i vari personaggi daranno vita a un toccante quadro d’insieme. Con questo film, che rievoca il tragico periodo dell'occupazione tedesca a Roma, Rossellini obbliga lo spettatore a non abbassare lo sguardo, proprio come don Pietro (interpretato da un gigante quale Aldo Fabrizi), dinnanzi alle torture subite dal suo amico per mano della Gestapo, e a non chinare la testa di fronte all’assassinio di Pina (magnifica Anna Magnani). No, per il regista romano è finito il tempo dell’indifferenza: ognuno deve trovare il coraggio e sentire il dovere di guardare in faccia la realtà.
Seconda pellicola della ‘trilogia della guerra antifascista’ (Roma città aperta – Paisà – Germania anno zero) è Paisà (1946), costituita da sei episodi incentrati sull'avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Nord Italia. Ogni episodio offre una narrazione rigorosamente locale, sia per le diverse inflessioni dialettali dei protagonisti che per le ambientazioni e atmosfere regionali, e una di più ampio respiro legata alla battaglia collettiva della Resistenza. In ogni singolo racconto Rossellini parla della morte, o meglio... della negazione della vita e dello spirito di sacrificio. Interpretata prevalentemente da attori non professionisti, Paisà segna la prima comparsa al cinema di Giulietta Masina, all’epoca già moglie di Fellini che, oltre al ruolo di aiuto regista, apparirà qui a sua volta in una breve sequenza.
Rossellini tornerà ad occuparsi della Resistenza nel 1959 con Il generale della Rovere, dove il grandissimo Vittorio De Sica interpreta Emanuele Bardone, un truffatore amante del gioco e delle donne che, con la complicità di un sottufficiale tedesco, estorce denaro ai familiari dei detenuti politici in cambio di false promesse. Bardone, una volta scoperto, dovrà affrontare una sfida che lo metterà a dura prova con la propria coscienza e lo costringerà a scegliere da che parte schierarsi. In questa occasione Rossellini punta dunque il dito sul ‘doppiogiochismo’ e sulla responsabilità individuale di cui le parole di Pier Paolo Pasolini, riferite al film, sottolineano il doloroso aspetto: “Un avvenimento davvero importante... Capace di togliere nuovamente la maschera all'Italia, vedere ancora la sua faccia vera, quindici anni dopo”. Di Pasolini, morto tragicamente nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975 presso il lido di Ostia, va anche ricordato l'ultimo lavoro cinematografico, considerato un vero e proprio testamento artistico e morale, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che si rifà al celebre romanzo di de Sade trasportato al tempo della Repubblica di Salò: un’amara metafora sul potere e sulle sue conseguenze.
Ma l’argomento della Resistenza non fu appannaggio esclusivo del neorealismo, come infatti dimostrano i due lungometraggi, ispirati a fatti realmente accaduti, a firma Nanni Loy: Un giorno da leoni (1961) e Le 4 giornate di Napoli (1962). In entrambe le opere Loy racconta la Resistenza da un punto di vista umano: dagli amici Danilo, Michele e Gino che faranno saltare un ponte utilizzato dai soldati germanici, al piccolo Gennarino Capuozzo, che a soli 11 anni morirà mentre è in procinto di lanciare contro i carri armati tedeschi una bomba a mano. Del 1963 è invece La ragazza di Bube, di Luigi Comencini. Tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Cassola, il lungometraggio è un perfetto ritratto di come in tempo di guerra venivano vissuti i rapporti amorosi: Mara (Claudia Cardinale) si innamora, ricambiata, del partigiano Bube (George Chakiris), ma quest’ultimo sarà costretto alla clandestinità fino a quando non verrà arrestato alla frontiera. Mara, rinunciando a un futuro pieno di opportunità, deciderà di aspettarlo per anni. Sempre degli anni '60, più precisamente del 1961, è Una vita difficile di Dino Risi, dove Alberto Sordi interpreta un ex partigiano fortemente convinto delle sue idee di sinistra, costretto poi a cedere al progressivo imborghesimento dell’Italia: una narrazione agrodolce sulla sconfitta dei passati valori della lotta partigiana.
L’Agnese va a morire (1975) di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo romanzo di Renata Viganò, è un racconto di Resistenza ispirato alla vera storia dell’autrice del libro, un film in cui viene messo in evidenza il ruolo delle donne nella battaglia antifascista. Agnese è un’anziana lavandaia che, nelle valli di Comacchio, tra l’8 settembre 1943 e l’inverno del 1944 dedicherà tutto il suo tempo all’attività di staffetta partigiana, portando cibo, informazioni e armi da un paese all’altro. In questo breve excursus cinematografico su cinema e Resistenza, non poteva mancare La notte di San Lorenzo (1982), di Paolo e Vittorio Taviani: una rilettura della strage del Duomo di San Miniato. Il lavoro dei Taviani, scritto da Tonino Guerra, conduce lo spettatore nel mezzo della guerra partigiana che si svolse in Toscana nell’estate del ‘44.
10 pellicole, queste, tra le tante che si sono occupate di una tra le pagine storiche più importanti del nostro Paese: per ricordare come il Cinema italiano abbia omaggiato quegli uomini e quelle donne che per la libertà di tutti hanno pagato il prezzo altissimo della propria vita.
(Foto di copertina, Vittorugo Contino)