Rendez-vous: Valeria Bruni Tedeschi e il suo sogno di lavorare con Woody Allen

Che il cinema francese, al contrario di quello italiano, trabocchi di femminilità è un dato di fatto. A conferma di ciò basti pensare alla numerosa schiera di attrici, registe e sceneggiatrici che con i loro lavori regalano ogni anno al Paese transalpino grandi successi sia di pubblico che di critica. Viste tali premesse, non ci si stupisce che l’ottava edizione del Festival Rendez-Vous abbia scelto di rendere omaggio a una donna: Valeria Bruni Tedeschi. Il compito di aprire le danze di questa imperdibile kermesse cinematografica è spettato infatti proprio all’attrice torinese classe 1964, trasferitasi all’età di nove anni in Francia, che con una masterclass tenutasi presso la Casa del Cinema di Roma ha incantato l’intera platea.

Negli oltre ottanta film interpretati, la Bruni Tedeschi ha raccontato solitudini e fragilità di donne inquiete e tormentate, sensibili e incredibilmente umane: animi femminili complessi e dotati di mille sfumature. Ma quanto ha influito nel suo lavoro il sentirsi tanto francese quanto italiana? E’ difficile dire se cinematograficamente mi senta più italiana o francese – afferma la Bruni Tedeschi –, perché nonostante abbia trascorso in Italia soltanto i miei primi nove anni di vita, ritengo che l’infanzia sia il momento più importante per la formazione di una persona. Non ho mai scordato inoltre le mie origini, dato che pur vivendo a Parigi sono rimasta sempre avvolta in un’atmosfera molto italiana. Credo che l’appartenere a due diversi Paesi possa considerarsi una ricchezza, anche per quanto riguarda il mio lavoro. Quando ad esempio recito in lingua italiana, mi accorgo che il mio corpo e le mie emozioni assumono contorni differenti rispetto a quando interpreto un personaggio che parla in francese, tanto che a volte ho la sensazione che in me vivano due attrici e non una soltanto. Ma il bello è che cerco in ogni momento di trovare la mia identità tra queste due differenti culture. ”.

Ora, più o meno tutti ricorderanno il magnifico e apparentemente stralunato discorso che la Bruni Tedeschi pronunciò dopo essersi aggiudicata il suo quarto David di Donatello per il film La pazza gioia di Paolo Virzì. Bene, in quell’occasione, tra le tante parole in libertà, la brava attrice torinese ringraziò pubblicamente anche il suo psicanalista, poteva dunque mancare durante l’incontro romano un accenno a questa figura professionale così importante nella sua vita? Certo che no: “Sapete, a proposito della lingua in cui sogno o penso, avevo preso in seria considerazione l’idea di venire una volta alla settimana a Roma per andare in analisi da uno psicanalista che parlasse in italiano, perché le sedute dovrebbero avvenire nella propria lingua d’infanzia!”. Ma, a parte i dubbi sul dove e con chi continuare il proprio percorso psicanalitico, la protagonista de La pazza gioia così ricorda il personaggio lì da lei interpretato: “Di Beatrice mi è rimasta la possibilità di non avere sempre presente quel SuperIo che troppo spesso mi appartiene. Ciò che più mi è restato sta però nel legame che si è creato tra me e Paolo Virzì, perché oltre alle relazioni che ho con familiari e amici vi sono anche quelle che si sono sviluppate con i registi con cui ho lavorato, e Paolo per me sarà sempre un punto di riferimento nella visione del mio lavoro”.

Già, il suo lavoro, che non è soltanto quello di attrice ma anche di regista, sceneggiatrice e montatrice. Con all’attivo ben 5 film dietro la macchina da presa, la Bruni Tedeschi sta ora realizzando il suo sesto lungometraggio, Les Estivants (I Villeggianti), dove ha scelto di avvalersi dell’interpretazione di amici, familiari, e attori professionisti quali Valeria Golino e Riccardo Scamarcio: “Nel mio prossimo film reciteranno mia mamma, mia zia e mia figlia. Lavorare al fianco di mia madre (la pianista Marisa Borini, che ha ricoperto numerosi ruoli nei film diretti dalla figlia) è bellissimo, innanzitutto perché è una bravissima attrice, e poi perché il nostro rapporto è decisamente migliore sul set che non nella vita reale. Per quanto riguarda invece mia zia, beh, lei in gioventù avrebbe voluto fare l’attrice, ma suo marito glielo impedì. Adesso, superati gli ottant’anni, vederla improvvisare e recitare sotto l’occhio della cinepresa è per me un vero spettacolo”. Ma quali sono stati i cineasti per lei d’esempio, d’aiuto o d’ispirazione? Di certo, l’incontro con Mimmo Calopresti è stato determinante per la Bruni Tedeschi, che con lui non soltanto ha recitato per la prima volta in lingua italiana (La seconda volta, 1995), ma ha anche partecipato allo script de La parola amore esiste, che l’ha invogliata a dedicarsi anche alla scrittura. Voglia che le ha permesso di mettere nero su bianco la sceneggiatura della sua opera d’esordio E’ più facile per un cammello… Sono però molti i filmmaker importanti per l’attrice franco-italiana, e tra questi v'è sicuramente il regista Patrice Chérau, scomparso nel 2013, che lei così ricorda: “Patrice è il padre simbolico del mio lavoro. Mi manca molto”. Poche ma incisive parole per quell’uomo che inizialmente fu il suo insegnante ai corsi di teatro all’Ecole des Amandiers di Nanterre, e che poi la seguì per il resto della sua carriera.

A questo punto Valeria scaccia via la tristezza in un battibaleno, un po' come accade nei suoi personaggi, ed esordisce così: “Stavo pensando che forse questo è il momento giusto per riuscire a esaudire un mio grande sogno. Sì, perché dopo tutto quello che è successo nessuna attrice avrà più voglia di recitare con Woody Allen, e invece io la voglia di lavorare con lui l'ho sempre avuta e la ho tuttora, fosse mai la volta buona? Certo, l’unico problema sarebbe la lingua inglese, perché nonostante mi applichi da lungo tempo nello studiarla, non so come possa accadere… ma ogni anno, invece di migliorare, regredisco! Comunque, per quanto riguarda il mio lavoro di regista, devo confessare che quando recito in un film diretto da me lascio molto in secondo piano il mio ruolo di attrice per concentrarmi su quello di regista. Risolvo però a modo mio questo contrasto, e sapete come? Mi siedo e dico all’attrice che c’è in me che è stata molto brava, anzi bravissima!”. Come non amarla? Impossibile, soprattutto dopo averla sentita affermare con semplicità che lei non si è schierata dalla parte delle attrici del movimento Me Too, e questo perché ritiene che salire o meno in una camera del Ritz sia una scelta abbastanza facile, rispetto a quelle difficili pressioni a cui vengono sottoposte tante donne in ambienti lavorativi meno ‘agiati’.

Al Rendez-Vous la Bruni Tedeschi ha presentato Une jeune fille de 90 ans (co-diretto insieme a Yann Coridian), toccante documentario sulla danza come terapia per malati di Alzheimer. La ‘giovane ragazza di 90 anni’ è Blanche Moreau, 92enne che si è innamorata di Thierry Thieu Niang, il coreografo che conduce il laboratorio con i pazienti del reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry. Nato come un cortometraggio, il film ha cambiato in corso d’opera la sua iniziale durata, e ciò è accaduto grazie all’imprevisto innamoramento di Blanche, che ha portato i due registi a filmare un miracoloso viaggio in un mondo senza tempo né età.

I minuti corrono, e l’incontro con la madrina di questa interessante rassegna di film francesi volge al termine. Siamo però curiosi di sapere cosa ne pensa l’attrice del cinema nostrano, e lei gentilmente risponde: “Purtroppo in Francia vengono distribuiti non molti film italiani, conosco quindi poco delle nuove realtà cinematografiche presenti in Italia, e ciò mi spiace molto”. Ecco, e con queste parole si potrebbe discutere per ore sulla buona o cattiva salute dell’industria cinematografica italiana...

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