Aladdin: Quando Disney incontra Bollywood

Dopo aver scavato nel giacimento favolistico mondiale, la Disney reinterpreta se stessa e i suoi maggiori successi in versione live action. Stavolta è il turno dell’orientaleggiante Aladdin, che nel 1992 ottenne cinque candidature agli Oscar, vincendo ben due statuette tra cui una per la Miglior Canzone (A Whole New World).  

Guy Ritchie è il regista over the top scelto perché sa fare bene il suo lavoro, senza timore di imbarazzarsi quando le situazioni si fanno esagerate. E in Aladdin tutto, ma davvero tutto, è esagerato. Il regista mostra di avere una conoscenza dell’insieme formidabile, facendo scivolare la macchina da presa in un dedalo di mani, sguardi, abiti, colori che fa impallidire qualsiasi luccichio del cinema indiano. Ovviamente Ritchie avrà frequentato un corso intensivo per corrispondenza dal titolo “Impara le basi di Bollywood e falle tue” prima di dirigere Aladdin, perché i riferimenti a questo genere sono sin troppo evidenti. Ma, l’alunno è stato diligente e il risultato è da premiare. 

A differenza di Tim Burton e del recente Dumbo, il regista britannico non desidera riscrivere a modo suo un classico senza tempo, introducendo nuovi personaggi e prendendo strade diverse rispetto all’originale. L’operazione intrapresa dall’autore di Lock & Stock - Pazzi scatenati è simile invece a quella effettuata nel 2017 da Bill Condon con il suo rifacimento de La Bella e la Bestia. Si potrebbe pensare di avere di fronte un’impresa meno rischiosa, che - almeno in teoria - proceda a colpo sicuro. In realtà, il pericolo è proprio quello di lasciare i fan di Aladdin con la delusione nel cuore, se la magia non dovesse avversarsi di nuovo a distanza di ventisette anni.   

Un brutto scivolone sarebbe stato altresì cadere sulla rappresentazione del Genio della lampada. Mamma che paura, non riuscire a rendere l’impalpabile inconsistenza di quel gigante blu doppiato nell’originale dal compianto Robin Williams! Invece, reclutare Will Smith si è rivelato un buon investimento alla fine. Per un pubblico di grandi e piccini, il divo di Men in Black decide di aprir bottega ed esporre tutta la sua mercanzia, fatta di mimica, balli e canti. 

Anche i due protagonisti, Mena Massoud e Naomi Scott, si dimostrano perfetti per i ruoli che gli sono stati assegnati. Alla bella Scott, poi, viene affidato il compito di esplicitare il femminismo di Jasmine, d’altronde già in nuce nel film di Ron Clements e John Musker: la sua principessa non si lascia scoraggiare dalla sorte e sogna di poter guidare politicamente il suo popolo, senza il bisogno di un marito al suo fianco. 

Se finora le scelte di tutti gli interpreti avevano ricevuto un meritatissimo pollicione in su, altrettanto non si può dire per la volontà di affidare a Marwan Kenzari il ruolo del perfido villain Jafar. Vuoi la differente età anagrafica rispetto al personaggio del cartoon, vuoi una recitazione piuttosto statica, Kenzari è uno dei punti deboli di questo film, pari merito con una CGI non sempre all’altezza.