Detroit: l’America controversa e razzista analizzata dallo sguardo penetrante di Kathryn Bigelow

Detroit, 1967. La Motor City (così era stata soprannominata Detroit, in quanto sede della General Motors nonché città altamente industrializzata) ricca e spavalda metropoli degli anni ’50, emblema del capitalismo galoppante, viveva un momento di drammatica mutazione. Da una parte i ricchi bianchi a migrare sempre più verso le periferie, dall’altra i neri, rimasti a fare da baluardo in un centro città sempre più desolato, povero e affamato. Dunque una sorta di segregazionismo cittadino che sarebbe culminato negli scontri dell’estate del 1967, con la cosiddetta rivolta della 12th street e che andò avanti dal 23 al 27 luglio, concludendosi  con ben 43 morti, 1189 feriti, più di 7 200 arresti, e più di 2 000 edifici distrutti. Una vera e propria guerra civile generata dal durissimo conflitto razziale in atto, e che fu scatenata da un evento piuttosto banale, ovvero un raid della polizia in un bar notturno privo di licenza (il blind pig), gestito da neri. Ma i toni e i modi così ‘accesi’ della polizia verso i gestori di colore determinano in breve l’insorgere della folla, e l’acuirsi a tal punto delle tensioni da costringere l’intervento dell’esercito. Quando orrore e frastuono sono ovunque, e la città pare territorio di guerra, proprio a quel punto la polizia fa irruzione nel Motel Algiers, preleva un gruppo di ragazzi di colore e due ragazze bianche per dare il via a una terribile e inspiegabile notte di orrore e torture.

Dopo il premiatissimo e acclamatissimo Zero Dark Thirty, Kathryn Bigelow, una delle poche registe donne contemporanee che vanta una solida posizione nel panorama cinematografico internazionale, torna alla regia con Detroit, un’altra pagina durissima nei confronti di quell’America dai mille volti e sempre tanto, troppo controversa. La sua regia muscolare e d’impatto, precisa e dinamica, è ancora una volta al servizio di una sceneggiatura (scritta insieme all’ormai fedele Mark Boal) che macina con forza dirompente il ‘sentimento’ di questa sanguinaria e brutale vicenda ispirata a fatti reali. Tracciando nella finestra di raccordo quel filo di contestualizzazione lungo il quale la storia si sviluppa,  la Bigelow prende però subito di petto anche il cuore nevralgico della sua storia, ovvero le ore interminabili di torture ai danni di un gruppo di ragazzi come tanti (due esponenti di una band nascente, un operaio, alcuni amici di colore residenti nel Motel, due ragazze bianche in vena di svago). La violenza reale e psicologica perpetrata ai danni di un gruppetto di indifesi diventa dunque il tavolo di battaglia sul quale Detroit gioca le sue armi migliori, seguendo con una regia presente e ficcante, veloce e puntuale la linea di sangue e terrore che sconfinerà da quelle mura per riversarsi poi nelle strade, nella società, in un devastante quadro di umanità ‘interrotta’.

Quasi come un pugile esperto su un ring difficile, la regista americana sferra colpi al volto e allo stomaco dello spettatore, rendendolo suo malgrado partecipe tanto  dello status di vittima quanto di quello di carnefice. Violenze assestate e subite non sono infatti qualcosa a cui ci si può sottrarre perché il teatro di sangue delineato da Detroit diventa quasi subito ambiente di condivisione forzato e ineludibile. La Bigelow muta l’evento storico in horror claustrofobico senza perdere però il terreno della valenza reale e simbolica della storia, senza farsi sovrastare dal sensazionalismo, restando invece aggrappata a un linguaggio del ‘reale’ che sovrappone forma e contenuti, veicolando l’orrore vero e allegorico della storia. Toccante e destabilizzante, Detroit scava nelle due ore e passa di film il marcio di una società iniqua, lasciando lo spettatore inerme e partecipe dinanzi allo scempio di persone che brutalizzano e uccidono altre persone, in nome di una qualche ‘verità’, e armati fino ai denti di una palese vigliaccheria.

Se la regia e il montaggio non sbagliano una virgola, grande merito va anche a una sceneggiatura precisa e con una potente parte centrale, che si affianca ad un prologo ed un epilogo dove a fare da chiosa c’è lo sguardo umano più mortificante, quello del ragazzo di colore (Larry Reed) ansioso di affermarsi come musicista e lasciato, oltre il buio di quella notte, ad “annegare” nel proprio sogno. Il suo tramutarsi da giovane pieno di speranze a giovane/vecchio senza alcuna aspirazione e rifugio franco nel quale vivere, è il finale da ko, il tassello finale e chiarificatore di una violenza enorme e gratuita capace di spezzare per sempre le esistenze: tante, troppe, tanto reali quanto psicologiche. Un film di cui si sentirà parlare, tanto per le plurime qualità artistiche quanto per l’altissimo valore dei contenuti.