Dogtooth – Perversione e controllo secondo Yorgos Lanthimos

In una Grecia decontestualizzata e fortemente simbolica, una famiglia vive la sua vita rinchiusa tra i confini di una grande e lussuosa villa, con giardino e piscina annessi. Solo al padre è concesso di varcare il cancello di casa, per andare a lavoro e mantenere economicamente il suo nucleo. Tutti gli altri (moglie, due figlie e un figlio) non sanno cosa esiste al di là di quello spazio e dunque prendono la loro confinata realtà per buona, unica, invariabile. I ragazzi crescono dunque privi di libertà di conoscenza e visione, ingabbiati in una vita e in un vocabolario che non appartengono alla verità vera ma alla loro realtà distorta, indotta, malata. E se la vita adulta – così ha detto il padre - si guadagna perdendo il canino permanente (Dogtooth), e l’esterno è vissuto come un pericolo, una minaccia, una potenziale falla in quel terribile sistema di controllo, la presenza di Christina (collaboratrice del padre, ingaggiata da quest’ultimo per soddisfare i desideri sessuali del figlio maschio) determinerà una breccia nell’organismo, un elemento di disordine venuto da fuori che con la promessa di un regalo e l’attrazione esercitata da un mondo ignoto porterà scompiglio e disordine fatale in quella perversa e iper-controllata dittatura casalinga. 

Umanità “de-umanizzate”

Miglior film nella categoria Un Certain Regard al Festival di Cannes 2009, l’opera seconda del regista greco Yorgos Lanthimos (in uscita nelle sale a distanza di undici anni) è un’incursione terribile e destabilizzante in una realtà autarchica e dittatoriale, che poi a ben vedere non rappresenta altro che le società e il controllo esercitato sul singolo, sull’individuo.

Sempre ricco di subdole perversioni e affascinanti coercizioni mentali, scene equivoche e derive horror, il cinema di Lanthimos presenta anche qui (come in Alps o The Lobster e per certi versi anche ne Il sacrificio del cervo e sacro e in La favorita) una collettività annichilita dai dettami imposti. L’idea di famiglia/comunità macabra in grado di crescere figli animali, guidati solo dai propri istinti e totalmente mancanti di una conoscenza mentale e liberatoria, è infatti un concetto su cui Lanthimos insiste sempre molto, in una riproduzione filmica che è spesso alimentata e ossessionata dal male insito nelle nostre società e nei loro ingranaggi portanti.

Violenza reale e violenza psicologica viaggiano dunque a braccetto, raccontate da una regia come sempre puntuale e insidiosa che cattura corpi o loro parti quasi a voler dissezionare poco per volta l’esile struttura della natura umana. Il processo di de-umanizzazione e animalizzazione crescente è poi una nota feroce e tipica dello sguardo registico del regista greco sul mondo, uno sguardo raccontato da un cinema “acido” e sempre di forte carattere, che non smette mai di sorprendere, sconvolgere e a suo modo destabilizzare.