Dopo l'amore

Quindici anni di matrimonio alle spalle e due splendide figlie di cui prendersi cura. Eppure, Marie e Boris sembrano essere giunti al capolinea, non avere più nulla da dirsi, aver consumato l’intera fiamma di quello che poteva essere stato un tempo il loro amore. Stancamente e con disagio, continuano a trascinarsi in una ‘relazione’ che agli occhi di tutti (soprattutto i loro) è arrivata al termine. Ma continuano a provarci. Lo fanno (in primis) per le figlie, e poi perché dividersi accentuerebbe ancora di più le insufficienze della loro precaria “economia di coppia” (titolo originale), ma anche perché tutto sommato l’idea di chiudere definitivamente quel pezzo di vita insieme genera un dolore lancinante a entrambi. La necessità di condividere ancora lo stesso tetto, però, è anche causa di un’acredine che cresce giorno dopo giorno e che nutre le loro litigate sempre più subdole, sempre più feroci, praticate anche di fronte agli occhi impreparati e angosciati delle figlie. Un’economia di coppia (in termini pratici, economici, ma soprattutto in termini emotivi, e di empatia) che nonostante gli sforzi, la nostalgia dei ricordi condivisi, e la bellezza che quell’unione ha generato non potrà più tornare. La via per la definitiva separazione di quel nucleo un tempo unito, solidale, armonico, è dunque una strada già imboccata, e il momento della fine è un’impasse che solo il tempo dirimerà.  

Coproduzione franco-belga per la regia di Joachim Lafosse, Dopo l’amore è il manifesto struggente di due cuori che hanno smesso di battere l’uno per l’altro e sono costretti ad accettarlo. Nonostante tutto. Nonostante ciò che si è costruito insieme, nonostante l’amore per i figli, nonostante il dolore. Affidando agli ottimi Bérénice Bejo e Cédric Kahn i rispettivi ruoli di Marie e Boris, Lafosse porta a galla proprio il cuore pulsante di questo dolore. Descrivendo con estrema sincerità i momenti più ‘distruttivi’ di una stare insieme che ha perduto le proprie premesse e si fa di colpo insostenibile, il regista francese decostruisce l’economia di coppia, scandagliando tutta la sfera di rinfacci e rimpalli che sempre entrano in gioco “quando finisce un amore”. Entrando di peso nel cuore della disfunzione relazionale, Lafosse rielabora lentamente il lutto della perdita, tenendo però anche a fuoco l’importanza della famiglia, di quel nucleo centrale (in questo caso due figlie) che comunque e in ogni caso resta anche dopo il naufragio della vita a due.

Inquadrando le relazioni tra tutti i componenti presi insieme e singolarmente, il film ‘lavora’ a riprodurre un realismo che si fa a tratti davvero sorprendente, e si porta appresso – di conseguenza - un dolore vero, lancinante. Nelle due scene chiave, poi, che segnano i due momenti centrali e catartici del film, Lafosse silenzia i litigi e i rancori, alza il sottofondo musicale e dà voce solo alla prossimità dei corpi, al senso profondo degli sguardi, e dei piccoli gesti. Prossimità di corpi che si sfiorano ma non sanno come parlarsi, prossimità di corpi che rievocano il concetto di quella famiglia che avevano sognato e che hanno in ogni caso generato. Due momenti bellissimi, e ugualmente drammatici, che sanciscono con esattezza il momento zero di un sentimento che vorrebbe – ma non può – ripartire. I soldi, le proprietà, i beni materiali, il chi ha fatto cosa e quando, tutto a quel punto perde quota, valore, senso, e l’atto più coraggioso e onesto che si possa fare è quello di concentrarsi non su ciò che è andato perduto e sui progetti falliti, ma sull’amore che resta: i figli.