Jackie

Il limite o il pregio del riportare alla “vita” attraverso il cinema un personaggio complesso e sfaccettato, con una biografia caratterizzata da sfumature e contraddizioni, può risiedere nel taglio che si decide di dare all’opera filmica. La vita di Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, non è certo una di quelle vite che si possono riassumere o archiviare con la narrazione di un evento specifico, perché include al suo interno una ricca rosa di eventi, svolte, rivoluzioni formali e personali.

Il regista cileno Pablo Larrain, un nome a dir poco osannato negli ambienti festivalieri e che nell’ultimo decennio ha dato ampia prova della propria bravura con titoli come Post Mortem, Il club, Neruda, sceglie con Jackie (film presentato in concorso all’edizione numero 73 del Festival di Venezia) di ripercorre luci e ombre, sfumature e intensità caratteriale del personaggio di Jacqueline Kennedy, raccontandola e mettendola a fuoco in un momento ben preciso della sua vita: ovvero all’indomani del brutale assassinio del marito, il 35° presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy.

Al centro della scena vi è dunque il complicatissimo scenario che in qualità di donna, madre, ex moglie ed ex first lady Jackie Kennedy si ritrovò a dover gestire, stretta tra il dolore intimo, la volontà di dare al marito il giusto funerale e omaggiarlo di fronte al popolo americano, e le pressioni esterne legate alle questioni di sicurezza, formalità diplomatiche, e priorità di ordine politico da osservare in un momento così critico. Natalie Portman si cala a ‘pieno viso’ nei panni di Jackie, restituendone un ritratto composito e intimista di donna combattuta tra fragilità e determinazione, tra il dolore della perdita e le incombenze del proprio ruolo. La sua è una prova attoriale di estrema dedizione che mette in luce tutto il lavoro fatto per entrare nella parte (il tentativo non sempre perfettamente riuscito di replicare Jackie nei modi, negli sguardi, nella voce), ma che mostra anche dei limiti ‘rappresentativi’ in virtù della difficile tenuta complessiva.

La somiglianza non proprio spiccata della Portman alla Kennedy, poi, è un altro piccolo ostacolo alla piena riuscita di un’opera che (d’altro canto) ha dalla sua numerosi elementi di pregio. In primis, la fattura della messa in scena. La compostezza e la precisione delle inquadrature che si mescolano a delle intuizioni visivo-narrative di notevole portata e indubbia suggestione, sono infatti tra i maggiori elementi di spicco di Jackie, e che ancora una volta confermano la mano esperta di questo regista cileno salito – giustamente e in breve tempo – agli onori della ribalta. Un pregio (quello delle qualità visive e tecniche) che letteralmente brilla e ammalia in Neruda, rivisitazione allegorica della vita del celebre poeta cileno adagiata sulle intuizioni di una poesia trasposta e ricomposta in raccordo umano e politico, e che invece risulta meno evidente qui, dove l’area di manovra del regista è forse troppo limitata e condizionata dai confini spazio-temporale scelti e adottati perché si liberi senza freni.

La Jackie di Larrain, in fondo, non è Jackie nella sua sottile e rotonda complessità, ma piuttosto la fotografia di una donna ritratta in un frangente drammatico e dilemma esistenziale della propria vita. E se il livello tecnico di messa in scena e regia restano senz’altro valori all’altezza del potenziale già espresso da Larrain, è la ricostruzione sintattica e narrativa del personaggio a soffrire invece di una parzialità che ne limita il carisma, e la capacità di comunicare oltre la forma.