La guerra dei cafoni: la conquista della Terramatta

Superata una breve introduzione ambientata in un’epoca passata e che vede in scena Claudio Santamaria, ci spostiamo negli anni Settanta a Terramatta, territorio selvaggio e sconfinato in cui non vi è traccia di adulti – al di là del barista Pedro interpretato da Ernesto Mahieux – e dove, ogni estate, si combatte una lotta tra i signori e i cafoni, ovvero i figli dei ricchi e quelli dei poveri.

Del resto, con i primi capitanati dal fascinoso Francisco Marinho e i secondi dal torvo Scaleno, rispettivamente con le fattezze di Pasquale Patruno e Donato Paterno, fin dal titolo si rifà chiaramente al classico della letteratura La guerra dei bottoni di Louis Pergaud il romanzo di Carlo D’Amicis da cui prendono spunto i registi Davide Barletti e Lorenzo Conte; i quali, autori, tra l’altro, del documentario I fantasisti: Le vere storie del calcio Napoli, precisano: “La guerra dei cafoni non è solo uno scontro tra bande di ragazzi, ma la radicalizzazione del concetto di bene contro male, di bianco contro nero. Nella concezione di questi quattordicenni, la realtà è sottoposta a un principio ordinativo, e quindi a una linea divisoria che colloca gli individui da un lato o dall’altro. La divisione tra ricchi e poveri, signori o cafoni, ragazzo o ragazza rende la guerra dei cafoni un grande teatro degli opposti”.

Ed è una avvolgente, desolata atmosfera che ne fa quasi uno Stand by me – Ricordo di un’estate nostrano a rappresentare il maggiore punto di forza di una atipica operazione tricolore da schermo che, parlata in parte in dialetto pugliese sottotitolato in italiano, sguazza, chiaramente, tra vecchi flipper e telefoni pubblici ancora forniti di disco anziché di tastiera.

Anche se, in verità, man mano che viene verbalmente citato L’ultima neve di primavera come film più bello del mondo, è in maniera evidente Il signore delle mosche di Peter Brook a tornare alla memoria nel corso della oltre ora e mezza di visione atta a rileggere un decennio ormai stereotipato e che non è stato solamente pantaloni a zampa d’elefante e notizie di cronaca tempestate di brigatisti e sequestri di persona. Perché, ancor più che in termini folkloristici e nostalgici, è dal punto di vista psicologico e culturale che l’insieme intende rielaborare un periodo che i già citati Barletti e Conte identificano in qualità di “abito mentale che faceva degli italiani delle persone diverse da quelle di oggi, con un sistema di valori e con un’idea dei rapporti personali e sociali assai specifica”.

Con un cast di giovanissimi attori in ottima forma che, tra l’altro, individuano nel simpatico, piccolo Tonino incarnato da Piero Dioniso uno degli elementi volti a generare la spruzzata di indispensabile ironia... all’interno di un interessante elaborato che finisce, però, per rimanere semplicemente nell’ambito della media a causa di una eccessiva lentezza di narrazione che rischia di renderne non molto coinvolgente la fase centrale.