La terra dell’abbastanza: Il ritratto di un mondo duro dove si salva, forse, solo chi “non pensa”

Mirko e Manolo (un ottimo Andrea Carpenzano) sono amici, fraterni, vivono nel degrado negletto di una periferica borgata romana priva di connotazioni. Insieme da sempre hanno condiviso e condividono tutto. Una sera, in macchina, investono per caso un uomo. La morte fa capolino nella loro vita per la prima volta. Accidentalmente. Ma da quella fatalità si scateneranno una serie di circostanze che condurranno i due amici verso un sentiero in cui la morte passerà dall’essere un evento di inconsapevole fatalità a una presenza sempre più presente e consapevole. Infilati in un giro di malavita e malaffare, i due amici dovranno di lì in poi cavarsela come possono, e con gli strumenti a loro disposizione. E se Manolo, dal canto suo, sembra avere la giusta spavalderia per agire senza alcun ‘ripensamento’, Mirko è invece un anello più debole, stretto nella morsa di una morale e di un circolo condizionante di valori che non lo rendono, di fatto, altrettanto ‘libero’.

I fratelli (gemelli) D’Innocenzo debuttano alla regia con un’opera prima che, transitata per la scorsa Berlinale nella sezione Panorama, ha raccolto numerosi consensi.

Lo sguardo crudo e centrato a scrutare una periferia di degrado e umanità mortificata corre lungo la linea di un’amicizia solida eppure traballante, dove il fatto di aver condiviso tutto e di avere gli stessi ‘sogni’ di riscatto non basta a tenere saldo il timone di un rapporto messo a dura prova da una ‘svolta’ di vita che appare come decisiva.

Nell’astrattismo di un luogo che non ha punti di riferimento e men che meno riferimenti adulti (i genitori sono assenti o non in grado di assolvere il loro compito di guida) e morali, i due amici vagano alla ricerca di una ‘svolta’ e di un ‘riscatto’ che viaggiano lungo la linea diretta dei soldi e del potere, ma che non tengono da conto la crescita personale, morale, umana. La via facile al ‘successo’ nasconde dunque il voltafaccia di un mondo che sfrutta e fa sfruttare senza sosta, ripagando ognuno con la stessa moneta. E così il giro di Mirko a fornire i generi di primissima necessità alle prostitute ‘bambine’ (cracker, acqua, profilattici) appare un po’ come il simbolo estremo di un circolo vizioso di sfruttamento dal quale, una volta entrati, non ci si può più sottrarre.   

Con la loro regia i D’Innocenzo marcano stretti i loro protagonisti, entrano nel vivo della loro dinamica esistenziale, ne tracciano bene qualità e ombre. L’arroganza estroversa di Manolo contro la spavalda insicurezza di Mirko contestualizzano gli alti e bassi di un legame soggetto ai limiti della miseria, non tanto materiale quanto morale. In una vita vissuta tutta d’estemporaneo, dove una pastarella in vetrina può rappresentare l’elemento in grado di illuminare gli occhi e cristallizzare in positivo una giornata, il dramma sotteso e la felicità di un momento si alternano senza sosta, senza che ci si ponga – mai - alcuna domanda. Si tratta infatti di una dimensione dove non c’è spazio per il dubbio o il ripensamento, e dove il tempo di un incidente o di uno sparo modifica per sempre la posta in gioco della propria vita, dove la morte entra per caso e poi diventa strumento “scelto” tramite il quale agire la propria scalata.

Un film perfettibile ma assai a fuoco, capace di portare a galla la densità di un dolore sordo, ovvero quello di esser ultimi senza (quasi) possibilità di appello. Infine, Il ritratto di un mondo duro dove si salva, forse, solo chi “non pensa” e dove la fame di riscatto non è mai “abbastanza”.