L’Albero dei frutti selvatici - Un’Anatolia contesa tra passato rurale e promessa di cambiamento

Con una laurea in tasca e il sogno nel cassetto di pubblicare il suo primo libro, e “campare” magari da scrittore, Sinan torna nel suo villaggio natio in Anatolia. Al ritorno, il giovane uomo alle prese con una risoluzione personale ancora lungi dal compiersi, ritroverà la sorella, la madre, il padre - maestro d’asilo un tempo stimato ora assediato da debiti e debitori accumulati grazie al vizio per le scommesse sportive. Catapultato nel mondo delle sue origini ma fresco dei nuovi stimoli prodotti dallo studio e dalla voglia d’esser scrittore e riportare quel suo mondo rurale su carta, Sinan intraprenderà un lungo girotondo di scambi, confronti, e scontri con amici, famigliari e potenziali editori del suo libro. Circondato da un luogo che sembra esser sempre lo stesso ma che in realtà appare anche radicalmente cambiato, il giovane aspirante scrittore ingaggerà un dialogo serrato con quel paesaggio circostante al fine di trovare sé stesso, riconciliarsi a quella figura trasandata eppure sincera di padre (Idris), rielaborare con il genitore un percorso di terreno comune che corre accanto a quel pozzo da scavare per trovare acqua e a quel nodoso pero dai frutti selvatici, testimone accorto e silente del tempo e delle generazioni che passano.

Il turco Nuri Bilge Ceylan, acclamato regista di C’era una volta in Anatolia e Palma d’Oro a Cannes per Il regno d’inverno, torna a parlare della sua terra attraverso le circonvoluzioni reali e mentali dei personaggi che la abitano. In Ahlat Agaci (letteralmente L’albero delle pere selvatiche) il regista affronta la dimensione sociale, economica, politica e religiosa del suo Paese con un film circolare composto da una serie di incontri per nulla casuali e molto simbolici - una ex fiamma, il sindaco, uno scrittore, un imprenditore, un giovane imam – e una serie di fitti scambi e scontri con i suoi famigliari, il padre in primis.

Attraverso le lunghe sessioni dialettiche tra Sinan e i suoi interlocutori emergono numerosi spunti per una riflessione a un tempo pragmatica e filosofica sullo stato di cose, su una realtà in bilico tra democrazia e despotismo, tra stasi e cambiamento. Alla maniera di cinema cui ci ha abituati, con spazi e tempi sempre molto ampi e dilatati, Ceylan svolge il filo del racconto creando un affresco di vita reale dove i dialoghi sono la parte nevralgica del movimento narrativo, cui fanno poi da sfondo le splendide distese rurali che rimandano a un tempo quasi intangibile dell’esistenza.

Di fatto, però, è il rapporto tra padre e figlio nel suo incarnare critica e condivisione, distanza e vicinanza, stasi e cambiamento a determinare il cuore di Ahlat Agaci (L’Albero dei frutti selvatici, ndr.). Due generazioni di uomini a confronto che si muovono lungo il profilo sconnesso e scosceso di un Paese in trasformazione, e che infine convergono verso una dimensione rurale capace di essere e creare un ponte tra passato e futuro.