Leatherface: i dolori del giovane Faccia di cuoio

Che dietro la macchina da presa si trovino i francesi Julien Maury e Alexandre Bustillo responsabili, tra l’altro, dello shockante À l’intérieur è intuibile già durante i titoli di testa, con il liquido rosso che schizza copioso ancora prima che avvenga un tragico fatto nel Texas del 1955 e che ci si sposti a dieci anni più tardi. Perché, concepito dalla penna del Seth M. Sherwood sceneggiatore di Attacco al potere 2 e ambientato a metà anni Sessanta, Leatherface non intende essere l’ulteriore continuazione della saga horror iniziata nel 1974 con il mitico Non aprite quella porta del compianto Tobe Hooper (qui produttore esecutivo) e costituita da quattro capitoli, bensì un prequel di quel capostipite e del Non aprite quella porta 3D diretto nel 2013 da John Luessenhop.

Prequel che, però, prende le distanze anche da quanto raccontato nel 2006 in Non aprite quella porta – L’inizio di Jonathan Liebesman, antefatto del remake firmato tre anni prima da Marcus Nispel, in quanto sceglie di tornare ancor di più indietro nel tempo per portarci a conoscenza dell’adolescenza di colui che sarebbe poi diventato, appunto, lo squartatore cannibale del titolo, armato di motosega e con il volto coperto da una maschera di pelle umana.

Una storia tutta nuova e totalmente inedita, quindi, che rischia di sicuro di snaturare le classiche origini del trucida-innocenti e di deludere i fan storici del franchise, abituati alla combriccola di amici in vacanza da trasformare in pietanze da servire a tavola, ma che ha almeno il merito di evitare di offrire la solita minestra (o pasticcio di carne, se preferite) riscaldata e di non ricorrere a personaggi banali e tagliati con l’accetta (per rimanere in tema).

A tal proposito, sarebbe sufficiente citare il vendicativo, squilibrato sceriffo dal grilletto molto facile interpretato da Stephen”Blade”Dorff e che è a caccia proprio dei quattro pericolosi giovani di cui fa parte il futuro Faccia di cuoio, i quali rapiscono un’infermiera in possesso delle fattezze di Vanessa Grasse nell’evasione da un ospedale psichiatrico.

Ospedale che, grazie anche ai toni cupi forniti dalla contrastata fotografia di Antoine Sanier, i due cineasti concretizzano in angosciante involucro trasudante la follia tipica di determinate pellicole dell’orrore d’oltralpe, man mano che riservano colpi bassi decisamente atipici per la cinematografia made in USA d’inizio terzo millennio, dominata da noiose ghost story e possessioni assortite.

Infatti, se da un lato si sarebbe potuto tranquillamente evitare il massacro al ristorante che rischia di richiamare in maniera banale alla memoria il Rob Zombie de La casa del diavolo, dall’altro un’ottima regia scandisce circa un’ora e mezza di movimentatissimo e mai prevedibile spettacolo che, senza concedere un attimo di tregua e comprendente perfino un disgustoso ménage à trois con cadavere in aria di omaggio al tedesco Nekromantik di Jörg Buttgereit, si rivela il più sanguinolento degli otto incentrati sul serial killer ispirato a Ed Gein.

E ciò rappresenta tutt’altro che un male... almeno per l’irriducibile appassionato di splatter in fotogrammi.