Mal de pierres

Gabrielle è bella ed emotivamente fragile. All’interno di un periodo storico che è quello successivo alla seconda guerra mondiale e nel contesto agricolo della campagna francese, il primo amore non corrisposto della giovane donna segnerà il germe di una depressione strettamente legata al senso del rifiuto. Alcuni suoi comportamenti non troppo ben accetti dalla comunità e (soprattutto) dalla sua famiglia borghese, segneranno l’inizio di un matrimonio voluto da sua madre per sistemare quella primogenita ‘complicata’ e ‘arginare’ gli scandali. Dapprima contraria a quelle nozze, la ragazza dovrà infine cedere al volere materno pur di non finire al confino in un ospedale psichiatrico. Ma l’uomo che le sta accanto lei non lo ama e alla prima occasione (un soggiorno alle terme per curare il suo Mal de pierres, ovvero dei calcoli), Gabrielle si lascerà andare all’amore per un ‘cliente’ dello stabilimento termale, il bel tenente André Sauvage. Una passione profonda, coltivata soprattutto grazie all’immaginazione e al desiderio ultimo di dare ampio sfogo alla propria libertà di donna, ma con ogni buona probabilità destinata ad avere vita breve.

La regista Nicole Garcia adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo della scrittrice sarda Milena Agus, Mal di pietre, un dramma a sfondo romantico ambientato nella Sardegna dei primi anni ’50, che nel film diventa Provenza. 

Costruito sulla convenzione del tempo secondo cui una donna non poteva essere tale se non accompagnata e scortata dal ‘suo’ uomo (marito), Mal de pierres costruisce addosso all’attrice Marion Cotillard (oramai diva super gettonata e richiesta dai registi francesi e non) il profilo di una donna incline agli eccessi e totalmente subordinata al proprio ‘sentire’. A fare da controcampo a questa protagonista femminile ci sono poi due uomini agli antipodi: Josè, il marito devoto e con pochi grilli per la testa di Alex Brendemühl, e André Sauvage, il tenente ricco e tenebroso che le rapirà fatalmente il cuore.

Una storia ricca di spunti riflessivi e (a onor del vero) fotografata e interpretata con pregevole intensità. Nella regia della Garcia, infatti, è presente e percepibile tutta la solidarietà verso una condizione di donna cupa (desaturata come la fotografia del film) e determinata per riscatto a vivere appieno il proprio trasporto emotivo. D’altro canto, però, ciò che non va e che toglie pathos e profondità a questo film francese (presentato in concorso al Festival di Cannes 2016) sono i tempi della narrazione che dal lungo flash back in poi ripercorrono le vicende/vicissitudini di Gabrielle. Non tutto torna come dovrebbe, e se il resoconto temporale degli avvenimenti sembra soffrire di scarti troppo evidenti, nella mancanza di una solida struttura narrativa si perde poi anche il trasporto che il film dovrebbe generare, evidenziando personaggi troppo superficiali per risultare interessanti. 

La Gabrielle della Cotillard si muove su quel confine sottile che separa il rifiuto determinato dello stato di cose dalla pazzia vera e propria. Ma nella confusione della ricostruzione e del rapporto di causa-effetto a determinare le vicende, questo confine s’ingrigisce e i personaggi scoloriscono a dismisura, lasciando in piedi una storia in fondo troppo ‘sconclusionata’ per essere emozionante.