The devil’s candy: rocky horror picture Sean

Dal mitico Morte a 33 giri che raccontò negli anni Ottanta di una rock star defunta e richiamata da un vinile suonato al contrario al divertente Deathgasm che, ricorrendo ad uno stratagemma analogo, ha provveduto nel 2015 a rispolverare il filone zombesco, non possiamo certo affermare che il legame tra celluloide dell’orrore e musica metal non rientri tra i più gettonati dall’universo della Settima arte di paura.
Anche se, in verità, è più un discorso relativo alla ricca colonna sonora comprendente Sun O))) e Metallica che al contesto della storia portata in scena quello che si può intraprendere nel caso di The Devil’s Candy, secondo lungometraggio diretto dall’australiano Sean Byrne che debuttò nel 2009 tramite The loved ones, tanto sanguinolenta quanto disturbante vendetta attuata da una studentessa nei confronti di colui che doveva accompagnarla al ballo di fine anno scolastico.

Lungometraggio che, a differenza del precedente, fa a meno di esagerazioni splatter per concentrarsi sulla lenta evoluzione della vicenda del Jesse interpretato da Ethan Embry, pittore tormentato da conflitti interiori e che va a vivere insieme a moglie e figlia nell’abitazione dei loro sogni, scesa di prezzo a seguito dell’oscuro passato che la avvolge. Perché, incarnato dal Pruitt Taylor Vince che ebbe già modo di sfoggiare tutta la propria inquietudine in Identità di James Mangold, è il disturbato Ray figlio dei vecchi proprietari della dimora a fare ritorno per complicare una situazione che, con il protagonista che inizia a sussurrare la voce del diavolo dal momento in cui i suoi quadri sembrano assumere un aspetto demoniaco, arriva a suggerire che entrambi i soggetti siano posseduti dalle medesime forze oscure.   

Del resto, tra famiglia sacrificata alla carriera e bambini a Satana, è il mito dell’incrocio secondo cui il musicista Robert Johnson vende consapevolmente la propria anima al diavolo per diventare il miglior chitarrista blues mai esistito ad essere ripreso dai circa novanta minuti di visione, chiaramente mirati a fondere raccapriccianti disegni, la tematica del serial killer e metallo pesante in note.

Circa novanta minuti che, al di là delle premesse, sembrano mantenersi dalle parti del thriller a sfondo psicologico anziché addentrarsi nell’horror puro, lasciando individuare la loro falla proprio nell’incapacità da parte della non troppo esplicativa sceneggiatura – a firma del regista stesso – di amalgamare a dovere le tre diverse argomentazioni.

Con conseguente mancanza di coinvolgimento destinata più volte a farsi sentire nel corso di un elaborato che, forse maggiormente adatto al mercato dell’home video, poggia in ogni caso su una non disprezzabile regia in grado di conferirgli, a tratti, lo sporco e affascinante look di una produzione di genere americana a basso costo risalente agli anni Settanta... soprattutto nella sequenza finale ambientata all’interno della casa.