Tomb Rider: Indiana Croft

Se non vogliamo entrare nel merito del perché fare un reboot di Tomb Raider, l’ovvia risposta è il denaro, chiediamoci se almeno ne sia valsa la pena.
Stabilendo che il target è giovane, che il videogioco non è più il cult di in tempo, che Indiana Jones “prima maniera” non se lo ricorda più nessuno e che le “bombe” di Lara non sono più di moda... allora si può affermare che il film funziona a suo modo. 

Di nostro, però, vogliamo aggiungere che non si può scomodare la Regina Himiko, senza parlare della Campana di Bronzo e del fatto che qui in Italia è e sarà sempre per tutti Himika, Jeeg Robot docet. 

La Vikander è quindi una Lara Croft frikettona e senza ormoni, con un sex appeal che potremmo definire disneyano, anche se gli vanno riconosciute doti ginniche notevoli.  Il povero Walton Goggins, un attore notevole sempre utilizzato male, restituisce l’ennesimo villain monodimensionale, ma c’è da dire che Dominic West non è da meno in quanto a stereotipi. Sui colpi di scena finali è meglio stendere un velo pietoso. 

La storia è incentrata sulla “nascita” di Lara e di quello che sarà il suo mito. Grandi atmosfere, ritmo sostenutissimo affidato all’impronunciabile norvegese Uthaug, poco spazio all’introspezione se non quella sindacalmente richiesta per uno straccio di trama. Poi... la familiarità di una caccia al tesoro in perfetto stile Indiana Jones. Una formula semplice insomma, ma affidabile. 

I semi per un lungo futuro sono stati tutti gettati, al botteghino l’ardua sentenza sul loro futuro.