Torino Film Festival: Don’t forget me. Disturbo alimentare e mentale come via di fuga da un mondo che non si/ci comprende

Tom è ricoverata presso una clinica specializzata in disturbi alimentari. Ragazze anoressiche, ragazze bulimiche, ragazze obese convivono nell’infelicità del loro malessere e nel rifiuto costante dei loro corpi. Le loro giornate tutte uguali sono scandite dal grigio rigore ospedaliero, dai pasti cronometrati (il momento peggiore della giornata), dai controlli quotidiani sul peso, sui movimenti intestinali e ormonali, e vissute nella speranza sempre flebile di una possibile interruzione di quella lenta discesa agli inferi. Qualcuna prova a trovare un momento di svago, lo smalto sulle unghie o una chiacchiera, ma spesso e volentieri è una richiesta che s’infrange sul silenzio e negli occhi vitrei della compagna, determinata a galleggiare nel proprio vuoto. Trattandosi infatti di malattie mentali originate da un disturbo depressivo profondo solo la decisione consapevole, la presa di coscienza e la forza di volontà possono determinare un cambiamento vero e un’inversione di rotta di quel corso di cose, forse scongiurare la lieve e invisibile ma inevitabile dipartita che queste ragazze in cuor loro anelano. Un giorno, per caso, Tom incontra Neil. Lui suona la tuba, o almeno vorrebbe. Il ragazzo vive in un ospedale psichiatrico, ed è rifugiato nel “luogo altro” del disturbo mentale: proiezioni, immaginazioni, suggestioni rievocate ad alleviare l’incomunicabilità con il mondo circostante. La stessa malattia di Tom, o quasi. I loro universi, prossimi, entreranno subito in contatto e la loro fuga nel mondo vero, estemporanea e allegorica, impossibile e speciale per le strade di Tel Aviv, indicherà la speranza ma anche ogni invalicabile limite della loro condizione. La ricerca di una normalità si scontra infatti a ogni passo con la volontà di restare confinati al proprio universo, in continua fuga da un mondo circostante che non si comprende, o non si riesce ad “afferrare”. Dunque il limbo di un frangente insieme per riconquistare un sorriso, un momento in mezzo agli altri, un attimo di vita comune.

Piccolo e intenso, questo film israeliano dal titolo Don’t forget me (non mi dimenticare) conquista il Torino film festival edizione numero 35 e si porta a casa ben tre premi. Oltre al Premio miglior film, infatti, l’israeliano si aggiudica anche i Premi miglior attore e attrice protagonisti andati rispettivamente a Nitai Gvirtz e Moon Shavit.

Un film diretto, che parla da vicino e senza mezzi termini di depressione, solitudine, morte, ma lo fa in maniera ‘lieve’ accordando l’allegoria del lutto alla fuga solo apparentemente amorosa dei due protagonisti. Il regista israeliano Ram Nehari sceglie la voce di due storie di disturbi che si prendono un attimo per mano e se ne vanno solidali e ignari a vivere il loro sogno di normalizzazione. Dalla vita di clinica passando per la negazione dei loro rispettivi problemi, per approdare al sogno di andare a Berlino, stare insieme, fare come tutti una vita normale. Un disegno che però inciampa a ogni passo nella realtà ben più macabra di una instabilità psicofisica che non è affatto in linea con la Vita, ma che fa anzi il paio con la doccia gelata di quell’amica morta all’improvviso per via di un cuore ridotto alla ‘fame’.

Morte, amore e depressione s’incontrano e danzano in questo piccolo film imperfetto e travolgente, ipersensibile come le vite di cui parla, sostenuto dal cuore di un dolore forte, e da due protagonisti freschi e sinceri, speciali. Toccante e dolente, Don’t forget me rifugge la speranza di vita per concedersi invece alla follia e alla morte, ma cristallizza quel momento in cui tutto potrebbe cambiare, ripartire, i cuori giovani potrebbero ricominciare a battere, se solo la mente - spesso così terribilmente controversa e diabolica - non continuasse a remare contro. Un premio significativo che elogia la sincerità di quest’opera prima e il suo paradossale appello alla Vita, tracciato nella gelida mancanza di speranze che abbraccia la storia.