King of the living dead: viaggio nel cinema di George A. Romero

In visita alla tomba del padre, Barbara e il fratello John vengono improvvisamente aggrediti da un misterioso individuo che uccide lui, senza riuscire a fare la stessa cosa con lei, la quale fugge trovando rifugio presso una casa di campagna.
Immerso in uno splendido bianco e nero per risparmiare sulle spese della pellicola, cominciava così, nel lontano 1968, quello che, nato con diversi titoli – tra cui Night of the flesh eaters, ovvero La notte dei divoratori di carne – e dichiaratamente ispirato a classici della fantascienza del calibro de L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e L’ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona, rappresentò il primo lungometraggio diretto dal cineasta di origini canadesi George A. Romero (mutato in George A. Kramer nell’edizione italiana del film), nato il 4 Febbraio del 1940 e purtroppo scomparso il 16 Luglio 2017.

I giorni degli zombi  
La notte dei morti viventi fu il titolo di quella piccola produzione che, destinata a proseguire con la protagonista rinchiusasi nell’abitazione di cui sopra insieme ad un ristretto gruppo di persone e pronta ad apprendere dai notiziari del ritorno in vita dei morti a causa di radiazioni emesse da una sonda inviata su Venere, non ha impiegato molto tempo a trasformarsi in un vero e proprio capolavoro della Settima arte, grazie alla sua innovativa carica rivoluzionaria e anticonformista.

Del resto, non solo introdusse nella storia dello zombie movie la figura del resuscitato in cerca di carne umana da sgranocchiare, ma si rivelò, forse, il primo horror che affrontava in maniera esplicita un discorso politico; testimoniato sia dalla presenza di un protagonista di colore che dalla inaspettata conclusione pessimista, dispensatrice di evidente critica nei confronti del razzismo.

Tutti aspetti che, complici anche la lunga e claustrofobica situazione d’assedio e l’impressionante esplosione di squartamenti e cannibalismo (con tanto di bambina impegnata a trucidare i genitori), hanno finito per mutarlo in oggetto di non poche imitazioni e rifacimenti, da quello omonimo firmato nel 1990 da Tom Savini a La notte dei morti viventi 3D di Jeff Broadstreet, datato 2006.

Lo stesso Savini che si è occupato nel 1978 e nel 1985 dei sanguinosissimi effetti di trucco di Zombi e Il giorno degli zombi, per mezzo dei quali Romero portò a compimento la sua ideale trilogia dedicata agli aggressivi cadaveri a passeggio, ponendo sempre più in primo piano il suo sguardo negativo – già accennato nel capostipite – nei riguardi del capitalismo e del consumismo.

Non a caso, se il primo dei due lungometraggi – oltretutto rivisitato nel 2004 da Zack Snyder attraverso L’alba dei morti viventi – sfrutta come ambientazione un moderno centro commerciale (per un approfondimento, vi rimandiamo al nostro Magazine), il secondo – rifatto nel 2008 da Steve Miner – si concentra su un gruppo di soldati e scienziati rinchiusisi in un bunker sotterraneo su un pianeta Terra ormai invaso da pericolose salme camminanti.

Un capitolo che, grazie anche all’introduzione della figura del novello dottor Frankenstein Logan – che preferisce la via scientifica dell’educazione alle armi – e dello zombi intelligente Bub, tra sbudellamenti e decapitazioni eseguite a mani nude portò a scoprire l’appetito per la carne umana come fattore istintivo e non di bisogno, in quanto stimolato dal cervello; oltre a fornire riflessioni sul comportamento civile quale elemento in grado di distinguere l’uomo dalle razze inferiori.

Le metà oscure
Le tematiche della guerriglia urbana e della prepotenza spesso manifestata dai rappresentanti delle forze dell’ordine, però, vennero già affrontate dal cineasta nel 1973 ne La città verrà distrutta all’alba, che, pur non rientrando puramente nel filone zombesco, ricorre al pretesto dell’improvvisa pazzia a suon di scatti di violenza esplosa nelle persone in seguito alla diffusione di un virus studiato per essere un’arma letale.

Con molta azione da western metropolitano, un’idea emulata ad inizio anni Ottanta da Umberto Lenzi in Incubo sulla città contaminata e ripresa nel remake realizzato nel 2010 da Breck Eisner.

Perché il cinema romeriano non è soltanto living dead, come testimoniarono già tra il 1971 e il 1972 la commedia romantica There’s always vanilla e La stagione della strega, storia di una casalinga che rimane affascinata dalla stregoneria.

Lavori a cui – sorvolando sullo speciale televisivo Magic at the Roxy e su alcuni documentari sportivi – è seguìto nel 1977 Wampyr, conosciuto dalle nostre parti anche con il titolo originale Martin e che, incentrato su un giovane dedito a bere il sangue di donne dopo averle narcotizzate ed averne incisi i polsi usando una lametta, segnò l’inizio del sodalizio tra il citato Savini e colui che mise poi in piedi, nel 1981, l’assurdo Knightriders – I cavalieri.

Bizzarra vicenda a base di motociclisti abbigliati alla maniera dei Cavalieri della Tavola rotonda, un biker movie comprendente nel cast anche l’Ed Harris che, più volte candidato al premio Oscar negli anni successivi, il caro vecchio George ebbe modo di dirigere, inoltre, in uno degli episodi che costituirono l’anno successivo lo splendido Creepshow, ispirato ai vecchi fumetti dell’orrore ed efficacemente intriso di humour.

Infatti, con l’attacco all’avidità a fare da chiaro sottotesto, è proprio il comic del titolo, buttato nella spazzatura da un severo padre, a favorire l’apparizione dello spettrale zio Creep alla finestra del giovanissimo Billy per raccontargli di un anziano tornato dalla tomba intento a realizzare la sua torta di compleanno con parti umane, di un facoltoso Leslie Nielsen che si ritrova in casa moglie ed amante della donna decisi a vendicarsi dopo essere stati uccisi proprio da lui, di un mostruoso essere dalle fattezze ominidi rinchiuso in una cassa, di un miliardario alle prese con un’invasione casalinga di scarafaggi e dei resti di un meteorite destinati a trasmettere una terribile infezione ad uno sprovveduto campagnolo.

Quest’ultimo interpretato dal re dell’horror su carta Stephen King, anche sceneggiatore della pellicola e alle cui opere Romero tornò nel 1993 per trasferire su grande schermo La metà oscura, trovandosi a fare i conti con spiacevoli disavventure produttive. Disavventure dovute al fatto che il dichiarato fallimento della casa di produzione Orion portò il regista a trovarsi sottratto il controllo sulla post-produzione, con la risultante di una non esaltante rilettura del mito di Jekyll e Hyde con protagonista un Timothy Hutton scrittore ed il suo pseudonimo trasformatosi in terrorizzante entità fisica.

Il ritorno dei morti viventi
Gli era andata un po’ meglio quattro anni prima, quando, attingendo dagli scritti di Edgar Allan Poe, aveva introdotto a suo modo lo zombismo nella trasposizione di Fatti nella vita di Mister Valdemar, episodio che, insieme a Il gatto nero di Dario Argento, costituì Due occhi diabolici.

Per non parlare dell’ancora precedente Monkey shines – Esperimento nel terrore, datato 1988 e con la violenza animalesca contrapposta a quella ragionata dell’essere umano inscenando il progressivo sviluppo del morboso rapporto tra uno studente universitario finito in stato tetraplegico e una scimmietta cappuccino ammaestrata.

Ma, se tramite l’interessante Bruiser – La vendetta non ha volto provvide nel 2000 a proporre un Jason Flemyng deciso a vendicarsi dei torti subiti in passato dopo essersi svegliato con il volto trasformato in una anonima maschera bianca, soltanto in seguito al rinnovato interesse manifestato dal pubblico nei confronti della figura degli zombi – grazie soprattutto al successo riscosso dal cineVgame Resident evil – Romero è potuto tornare ad occuparsi delle sue creature preferite.

Un ritorno segnato nel 2005 dall’eccellente La terra dei morti viventi, perfetta sintesi della situazione americana post-11 Settembre concretizzata ricorrendo ad uno scenario alla 1997: Fuga da New York, con i cittadini meno fortunati costretti a vivere di stenti tra le mura di una città fortezza (consolandosi viziatamene tra prostituzione, gioco d’azzardo e droga) e il ricco Kaufman alias Dennis Hopper impegnato a gestire i suoi redditizi commerci all’interno di un lussuoso e imponente grattacielo di Fiddler’s Green, ultimo baluardo della classe dominante.

Un nuovo tassello che, con morti viventi – qui ribattezzati walker – in procinto di subire un progressivo processo di evoluzione che gli consente di imparare a organizzarsi e a comunicare, oltre che decisamente malinconici e che viene una gran voglia di spalleggiare, era nato come quarto della vecchia trilogia, per poi trasformarsi nel primo di una nuova.

Rispettivamente del 2007 e del 2009, infatti, sono Diary of the dead – Le cronache dei morti viventi e Survival of the dead – L’isola dei sopravvissuti, quest’ultimo presentato addirittura presso la sessantaseiesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Con un gruppo di studenti di cinema che, dediti alle riprese di un film horror, si trovano a dover fare i conti con il misterioso flagello che ha trasformato i comuni mortali in famelici zombi, il primo si allaccia al filone del found footage lanciato da The Blair wotch project – Il mistero della strega di Blair per prendere di mira più del solito i media; mostrando la maniera in cui i filmati girati dai ragazzi rappresentino la verità in un mondo tempestato di notizie spesso manipolate dai notiziari televisivi.

Il secondo, invece, è un affascinante western moderno ambientato a Palm Island, sulla Costa del Delaware, dove un isolano ribelle è deciso a sterminare senza pietà qualsiasi morto vivente capiti sulla sua strada, mentre un altro è impegnato a compiere il desiderio del Signore, sperando in una cura per sconfiggere l’epidemia. Un western moderno mirato ad accusare la società a stelle e strisce di essere rimasta ferma ai tempi dei cowboy, quando le guerre si combattevano soltanto in onore di una bandiera e senza ricordare chi dei due avversari ha fatto la prima mossa per iniziarle; ipotizzando addirittura un’evoluzione di corpi ambulanti non più esclusivamente ghiotti di carne umana.

Un’evoluzione di cui, purtroppo, in fotogrammi non avremo più modo di vedere ulteriori sviluppi, dovendoci accontentare, al massimo, dell’atto primo de L’impero dei morti, fumetto Marvel disegnato da Alex Maleev su sceneggiatura di Romero ed edito in due volumi.

Anche se qualche sorpresa potrebbero riservarla il nuovo Day of the dead di Hèctor Hernández Vicens e l’annunciato George A. Romero presents: Road of the dead di Matt Birman.

R.i.p.