Cibo e Cinema: viaggio all’interno di un sodalizio indissolubile

Nella storia del cinema i film senza richiami mangerecci sono davvero pochissimi, ed è proprio per questo che, fare un’analisi esaustiva di tutte le opere in cui tale tema è stato trattato, risulta, oltre che poco invitante, assai difficile. Proveremo quindi ad addentrarci nel mondo della settima arte con un viaggio puramente metaforico, per ripercorrere poi a grandi linee i titoli più significativi inerenti alla gastronomia filmica.

Prima però, divertiamoci a fare un gioco strampalato, (senza voler ovviamente entrare nella diatriba tra carnivori e vegetariani, argomento che   in questi ultimi anni sta suscitando non poche discussioni), e proviamo ad assegnare una diversa categoria alimentare ad alcuni generi cinematografici, a qualche regista, e ai tanti spettatori.
Utilizzando questa chiave di lettura lanciamo i dadi sul cartellone e approdiamo alla casella “cinema onnivoro-bulimico

dove i film, nutriti di tutti i possibili  ingredienti, dopo lunga elaborazione verranno magnificamente rigettati in pasto alla platea. Cineasti quali Federico Fellini – emiliano e dunque buongustaio per antonomasia –, Peter Greenaway, Terry Gilliam, e Pedro Almodóvar, che grazie alla loro eclettica voracità artistica hanno tessuto veri capolavori, potrebbero appartenere a questa insaziabile tipologia dell’eccesso. Lo “spettatore onnivoro-bulimico” è invece un divoratore di ogni tipo di pellicola, un convitato dal  palato facile che, pur non disdegnando nessuna pietanza, è sempre pronto a rigurgitare ciò che non ha gradito.

Avanzando sul cartellone immaginario ci imbattiamo sul “cinema anoressico”, in cui la quasi assenza di dialoghi, il ritmo esasperatamente lento e la tematica esistenzialista portano alla memoria la filmografia di Michelangelo Antonioni, di Robert Bresson e, per molti versi, di Wim Wenders. In questa ipotesi lo “spettatore anoressico” è un commensale difficile da appagare, il suo rifiuto verso ogni cibaria lo induce infatti a scartare la maggior parte dei film nelle sale: un  cultore appassionato di opere di nicchia.

Ma la partita non è ancora chiusa e, titubanti, ci avviciniamo al “cinema carnivoro”, e poi a quello “vegetariano/vegano”. Nel primo caso viene spontaneo pensare a pellicole  horror e splatter, con i pezzi di carne sanguinante alla mercé dei più affamati, e immediato è il richiamo a John Carpenter, David Cronenberg, George A. Romero, Mario Bava, Dario Argento, e, anche se non proprio regista orrorifico, Quentin Tarantino. Tra gli “erbivori”, a farla da padroni sono i film d’animazione: nemmeno l'ombra di un attore in carne e ossa! Viene da sé che gli aficionados di tali generi si divideranno tra amanti di squartamenti e appassionati di grafica.

Per giungere al traguardo vittoriosi manca davvero poco, gettiamo allora i dadi per l’ultima volta e procediamo fino al “cinema street-food”, rappresentato ottimamente dai cortometraggi. Già, perché se il cibo da consumare in strada è stuzzichevole e veloce, altrettanto lo sono i film della durata di minuti: snack da assaporare uno dietro l’altro, senza sosta come con le ciliegie. Lo “spettatore street- food” è indubbiamente un teorico della quantità: tante storie diverse al medesimo prezzo di un polpettone infinito!

Alea iacta est pronunciava Giulio Cesare, varcato il Rubicone. Come lui, anche noi sappiamo bene di aver violato le giuste leggi che impongono una “critica” cinematografica più concreta e meno empirica, ma il cinema è fantasia, è divertimento, è immaginazione.

Per farci perdonare l’aperitivo di divagazioni fin qui espresso, ritorniamo con i piedi in terra proponendovi un breve excursus sul connubio cinema-cibo.

Che questo sodalizio sia presente fin dagli albori cinematografici è un dato incontestabile. Era il lontano 28 dicembre del 1895 quando i fratelli Auguste e Louis Lumière, dinnanzi a trentatré  spettatori paganti, organizzarono la loro prima proiezione pubblica in un rinomato caffè parigino, il Salon Indien du Grand Café sul boulevard des Capucines. Repas de bébé (La colazione del bimbo), incluso tra i dieci lavori scelti per quell’incredibile occasione, è un filmato di circa un minuto in cui due premurosi genitori imboccano il loro neonato. Cinque anni più tardi sarà Georges Méliès a portare la pietanza sul grande schermo, il suo Le Repas fantastique (Il pasto fantastico) mostra infatti un uomo che si appresta a cenare con moglie e figlia senza però riuscire ad iniziare il suo banchetto a causa di una serie di fenomeni soprannaturali.

Se i Lumière si concentrarono sulla rappresentazione del reale, realizzando di fatto un involontario documentario “sociale” su un’agiata famiglia di fine Novecento, Méliès trasformò invece la realtà in chiave magica e fantastica: in entrambi i casi, uno degli importanti elementi narrativi prescelti fu comunque il cibo. D’altronde, cosa c’è di più naturale se non l’atto del nutrirsi?

Ogni volta che si parla di comicità dell’epoca del muto, la memoria ci riporta alla mente quelle carrellate di sequenze memorabili legate alle torte in faccia. Chi non ricorda le tante Saint’Honoré  lanciate dalla coppia Stanlio e Ollio ne La Battaglia del Secolo, diretto nel 1927 da Clyde Bruckman? Forse in pochi rammentano però che la battaglia a colpi di panna… scaturì da una buccia di banana: frutta e dessert che diventano aperitivo della risata, più che della serata! All’incirca nello stesso periodo, per l’esattezza nel 1925, quel genio di Charlie Chaplin, con La Febbre dell'Oro, riuscì nel tempo a far ridere e commuovere gli spettatori di mezzo mondo utilizzando due panini, due forchette, e uno scarpone: mai danza fu così bella, mai fame tanto sofferta.

Certo è che l’ondata culinaria è inversamente proporzionale alla situazione storica di riferimento, ed ecco allora, nel 1943, la corrente neorealista aprire in Italia i suoi battenti con un’opera che  inizia da un incontro dal sapore di involtini: Ossessione, di Luchino Visconti. Ma la carenza di sostanze alimentari, dovuta alla povertà dell’immediato dopoguerra, fece sì che i cineasti appartenenti a quella corrente raffigurassero la triste situazione economica del Paese anche mediante la messa in scena di piatti con polenta e anguille, come quello che ritroviamo in Paisà, diretto nel 1946 da Roberto Rossellini, o con la mozzarella in carrozza del piccolo Bruno, in Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica, del 1948. Due esempi, questi, in cui si potrà notare come, da una parte, la cucina contadina divenga in giorni di crisi ciambella di salvataggio, e dall’altra, come il conflitto di classe passi perfino attraverso ciò che si mangia.

Superati i crampi allo stomaco per la fame del tempo di guerra, il cinema nostrano comincia a raccontare l’altra faccia della medaglia: la comicità generata dall’opulenza. Ed ecco l’Albertone nazionale, in Un Americano a Roma, Steno 1954, avventarsi su un piattone di pastasciutta e divorarla a suon di: “Macarò... m'hai provocato e io te distruggo, macaroni! Mò me te magno!”, e, nello stesso anno, il principe della risata Totò, in Miseria e Nobiltà di Mario Monicelli, ballare su una tavola imbandita con le tasche della giacca stracolme di spaghetti.

Ma se, fino alla fine degli anni Sessanta, il cibo è servito soltanto da contorno alla narrazione, nel   successivo decennio assume una rilevanza di prim’ordine. In Italia è l’epoca della media borghesia venuta su dal niente, quella dei voraci piccoli imprenditori dallo sfrenato individualismo. Ed è in questo contesto sociale – dove vige il diktat di prendere la vita a morsi e godersela attraverso i beni materiali – che si inserisce La Grande Abbuffata di Marco Ferreri. Il film, che debuttò a Cannes tra i fischi per poi sbancare i botteghini, è la metafora cinica e crudele di una società onnivora destinata dalle proprie illusioni all'autodistruzione, un mondo dove l'eccesso dell'offerta porterà all’accumulo e poi alla rovina, un pantagruelico simposio che sazierà i troppi desideri umani fino alla morte. Già nel 1972 Luis Buñuel aveva tracciato il sentiero della denuncia di classe, proponendo una sagace e beffarda critica al ceto medio con Il Fascino Discreto della Borghesia. All'opposto del lavoro di Ferreri, però, la commedia del regista spagnolo ruota attorno a una cena che per motivi vari non avrà mai luogo: una borghesia ormai sfiancata non più capace di nutrirsi, quindi impossibilitata a evolversi.

In Brutti Sporchi e Cattivi, del 1976, Ettore Scola sfrutta un’immensa porzione di pasta alle melanzane per riappacificare, apparentemente, gli animi di una orribile famiglia. Sì, perché di fronte a gustosi manicaretti ci si sente più rilassati, e poco importa se per gustare le delizie di rinomati chef si sia disposti anche ad uccidere, come in Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d'Europa, di Ted Kotcheff, 1978.

Cibo inteso dunque come simbolo di vita e morte, gioia e dolore, fame atavica e ingordigia post bellica, accusa sociale e nevrosi. E, a proposito di nevrosi: “Lei non faccia il tunnel! - Cosa? - Lei mi sta scavando sotto, mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se lo porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato, non è come la Sachertorte…-Cosa? - La Sachertorte… - Cos’è? - Cioè, lei praticamente non ha mai assaggiato la Sachertorte?!… -No. - Va be’ continuiamo così, facciamoci del male!!!”. Nanni Moretti in Bianca, del 1984. Ma il momento del pranzo è anche emblema di aggregazione, e Gabriel Axel, affondando le mani nel racconto di Karen Blixen, ne Il Pranzo di Babette mostra come questo sia possibile grazie a un  menù luculliano a base di brodo di tartaruga, blinis demidoff, quaglie en sarcophage, insalata mista, savarin, varietà di formaggi e frutta, caffè con tartufi al rum, pinolate, frollini e amaretti... il tutto annaffiato da Amontillado bianco ambra, Clos de Vougeot, Champagne Veuve Clicquot: un  regalo culinario talmente prezioso da riportare la serenità a un intero villaggio.

E che dire del binomio cibo-eros? Tra i tanti film che l'hanno celebrato, l’immaginario collettivo vola verso 9 settimane e 1/2, diretto nel 1986 da Adrian Lyne. Come scordare le fragole, il miele e il peperoncino, qui nel ruolo di protagonisti, in una delle scene più hot degli anni Ottanta? Meno conosciuto, ma forse ancor più intenso, è Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l'Amante, di Peter Greenaway, 1989, dove la riflessione sui temi di pietanza e sesso viene portata ai limiti estremi. Mangiare Bere Uomo Donna, l'opera di Ang Lee del 1994, che in una sola frase racchiude il senso profondo del film, è decisamente per palati più raffinati: “Mangiare bere uomo donna. Cibo e sesso. Desideri fondamentali dell’uomo. Non se ne può fare a meno, ma è tutto qui? Questa me la chiami vita tu?”. Nel suo lavoro il cineasta taiwanese lascia che i sentimenti si esprimano non a parole, ma tramite tradizionali ricette preparate con amore da Chu, cuoco d’alta classe oramai in pensione. Lasse Hallström preferisce invece la via dell’immaginazione, e in Chocolat, del 2000, l’energia sensuale del cioccolato trasporterà gli spettatori in una stuzzicante e poetica ars amatoria.

Nel nuovo millennio lo scopo principale del piccolo schermo sembra essere quello di nutrire il pubblico con programmi all’insegna di chef stellati, cuochi amatoriali, tour gastronomici. E il cinema? Il cinema non si fa certo trovare impreparato e, offrendo titoli dal sapore esotico, costruisce un ponte tra culture lontane. Così, mentre nel 2011, in Jiro e l'Arte del Sushi, documentario di David Gelb, si racconta la lunga carriera dell'ottantacinquenne Jiro, stilista ed esteta nell'arte del sushi, e nel 2014 in Amore Cucina e Curry Lasse Hallstrom illustra una "guerra" culinaria tra la realtà europea e quella indiana, nel 2015 con Le ricette della Signora Toku il giapponese Naomi Kawase fa scoprire agli spettatori la delizia dei dorayaki ripieni di anko.

Rimanendo in cucina, per non far torto al cinema d’animazione è doveroso ricordare il Leprotto Bisestile e il Cappellaio Matto alle prese con il loro eterno tè accompagnato da dolcetti, nonché la famosissima Alice che, trovando una scatola di biscotti con la scritta “mangiami”, non resisterà alla tentazione di mordicchiare il pasticcino magico! E come non citare il topino Rémy, che riuscirà a coronare il grande sogno di diventare chef grazie a una prelibata ratatouille? E le polpette che piovono dal cielo? E il “bacio degli spaghetti” tra il vagabondo meticcio Biagio e la cockerina di razza Lilli? E quell'appetitosa mela rossa offerta dalla strega a Biancaneve?

E..., e..., e...  Già, potremmo andare avanti all’infinito.

Per chiudere in bellezza questa - seppur molto ridotta - scorpacciata filmica, servirebbe, come cantava Pino Daniele, na' tazzuelella 'e cafè insaporita dalle indimenticabili immagini televisive di Questi Fantasmi del 1962, dove un immenso Eduardo, affacciato al terrazzino di casa, spiega la tecnica esatta, indispensabile per ottenere un caffè perfetto: “Accidenti, questo si che é un caffè… Vedete quanto ci vuole poco per rendere felice un uomo: una tazzina di caffè presa, tranquillamente, qui fuori…”. Altri tempi…