Conosciamo la redazione: 'The Wonderful Eight', i migliori film del 2016 secondo Silvia Fabbri

Anche il 2016 è in dirittura d’arrivo, e se è vero che il detto “anno bisesto anno funesto” sia stato rispettato come non mai, il mondo della Settima arte parrebbe non essersene accorto. Già, perché se nei trascorsi 12 mesi il grande schermo ha regalato al pubblico tante belle emozioni, è evidente che la superstizione, con il mercato cinematografico, proprio non si sposa. Al grido di The show must go on, ecco dunque a voi i film che, per un motivo o l’altro, sono finiti nella mia Top Eight:   

8) Microbo & Gasolina, di Michel Gondry
Questo gioiellino cinematografico non poteva assolutamente mancare nella lista dei migliori otto, perché se il cinema è il regno della fantasia… Microbo e Gasolina ne sono i Re incontrastati. La surreale avventura estiva, che vede protagonisti due tredicenni in fuga da un mondo che non li comprende, è un inno all’amicizia, alla diversità e all’immaginazione: una boccata d'aria fresca da inspirare a pieni polmoni. Uscire da una proiezione e sentirsi di nuovo bambini è infatti una sensazione che non può che definirsi “magica”. Certo, la bravura degli attori, la sceneggiatura perfetta, la maestria di Gondry, sono elementi fondamentali per l’ottima riuscita di quest’opera: un viaggio di formazione per i più giovani, e un ritorno all’infanzia per chi negli ‘anta’ è già entrato da un pezzo.

7)  Anomalisa, di Charlie Kaufman e Duke Johnson
Film difficile, Anomalisa: alla fine dei titoli di coda stentavo ad alzarmi dalla poltroncina rossa in cui mi ero nervosamente rigirata per l’intera durata della proiezione. Film bellissimo, Anomalisa: una volta uscita dalla sala ho chiesto all’ufficio stampa di poterlo rivedere. Questo lungometraggio in stop-motion porta gli spettatori negli angoli più bui dell’essere umano, dove solitudine, ricerca di identità e rapporti interpersonali rappresentano gli scogli in cui vanno a infrangersi i nostri oscuri pensieri. Nonostante sia un’opera d’animazione, raccomando vivamente di tenervi alla larga i bambini, perché sebbene i personaggi siano dei pupazzi, quel misto di ansia e angoscia che la narrazione trasmette è a tratti insostenibile anche per un adulto; eppure… Eppure, a distanza di mesi non posso fare a meno di ritenere il film di Kaufman e Johnson un vero capolavoro: una perla nera che, come i gatti del medesimo colore, potrebbe non piacere a tutti.

6) The Hateful Eight, di Quentin Tarantino
Sarà che ho avuto la fortuna di vedere “l’odiato ottavo” in versione 70mm nel mitico teatro di posa numero 5 di Cinecittà, sarà che lo schermo misurava 21 metri di lunghezza x 8 metri di altezza, sarà che la mia stima per il regista di Pulp Fiction potrebbe portarmi a esprimere un giudizio parziale… Insomma, sarà quel che sarà, fatto è che l’ultimo lavoro del geniale filmaker di Knoxville mi ha convinto sotto molti punti di vista. Girato quasi interamente in un’unica location, una malridotta taverna sperduta tra i monti, The Hateful Eight è un prodigio di sceneggiatura. I dialoghi tra i personaggi sono carichi di significati politici, frasi incisive su razzismo e schiavitù, tradimento e tornaconto personale, giustizia di stato e quella fai da te, il tutto accompagnato da travolgente ironia: una politicamente scorretta metafora western del mondo contemporaneo. Nulla in quest’opera è lasciato al caso: la splendida fotografia, la bravura del cast, la sorprendente potenza delle note di Ennio Morricone, catturano l’attenzione degli spettatori per oltre 3 ore. In un crescendo di tensione, quasi fosse un ordigno a miccia lunga, la deflagrazione finale non potrà che apparire come un tripudio di spettacolari fuochi d’artificio.

5) Un padre, una figlia, di Cristian Mungiu
Quando un film sprona alla riflessione, vuol dire che ha raggiunto il suo scopo. E’ questo il caso dell’ultimo lavoro del regista rumeno che, oltre a spingere lo spettatore a scavare nelle profondità del proprio ‘Io’, riesce a trattare argomenti complessi rendendoli accessibili a tutti, e questo non è poco. Mungiu prende infatti come spunto l’esame di maturità di una diciottenne, per una considerazione universale sull’etica, la morale, i valori da tramandare ai propri figli, e sul sottile limite tra rettitudine e disonestà. Da un evento comune il cineasta trae il perno su cui far ruotare ogni azione: una concatenazione di avvenimenti all’interno della fragilità umana. Durante la proiezione di Un padre una figlia sono due le domande che balzano alla mente: il fine giustifica sempre i mezzi? E se quei mezzi li abbiamo combattuti per gran parte della nostra vita, che insegnamento lasceremo ai posteri? Già, perché quel superamento del confine tra un semplice compromesso e l’immoralità di un’azione sta alla base di questa toccante opera cinematografica dove il protagonista, un uomo onesto, con un solo gesto spazzerà via quanto di buono ha costruito grazie ai suoi forti ideali. Un ammonimento, dunque, quello che Mungiu mette brillantemente in scena: camminiamo tutti in precario equilibrio sulla fune dell’onestà, ma se mettiamo un piede in fallo... non è detto che ci sia una rete pronta ad attutire la caduta.

Siamo ormai giunti al giro di boa di questa classifica, e gli ultimi 4 titoli si guadagnano un più che meritato primo posto ex aequo:

1) Il Club, di Pablo Larraín 
Disturbante, splendido e indispensabile. Il regista cileno narra con inclemente ferocia le vicende di un piccolo manipolo di sacerdoti peccatori. Prendendo di petto una delle istituzioni più antiche e forse corrotte dei nostri tempi, Larraín dimostra ancora una volta di avere coraggio da vendere. Vedere Il Club non è una passeggiata di salute, anzi. Molto spesso, a causa della violenza delle parole, oltre che di alcune immagini, durante i 97 minuti di proiezione l’aria verrà a mancare. La brutalità del linguaggio, il climax sempre più serrato, l’ambiente cupo, la fotografia sapientemente sgranata e la totale assenza di colori brillanti coincidono alla perfezione con la depravazione di ciascun personaggio: orchi travestiti da preti. La collera e lo sdegno verso quella parte dell’ambiente ecclesiastico che, invece di denunciare un sistema corrotto si preoccupa di tutelare la propria immagine, hanno accecato di rabbia l’intera platea. Una platea annichilita da una tremenda verità che il regista cileno sbatte in faccia al pubblico senza lasciare spazio alla speranza: ognuno è colpevole, questa volta non ci sono sconti per nessuno! Neppure per gli spettatori. Il senso di colpa per non aver combattuto abbastanza contro qualsiasi forma di sopruso è infatti una sensazione che induce tutti a riconsiderare le proprie responsabilità. “Non commettere atti impuri” recita il Sesto Comandamento: nelle tavole dei quattro protagonisti, probabilmente, il numero 6 non era incluso.
Film, dunque, raggelante e straordinario, che a distanza di tempo fa ancora vibrare d'indignazione le corde dell'anima, la mia inclusa.

1) Io, Daniel Blake, di Ken Loach
Che il cinema proponga spesso superficiali prodotti usa e getta è purtroppo un’innegabile verità. Fortunatamente la Settima arte regala però anche opere in cui la banalità è stata esiliata in luoghi  irraggiungibili. Ecco, I, Daniel Blake è uno di quei film in cui frivolezze e approssimazioni sono state bannate dal mitico Loach. D’altronde, da un uomo che ha dedicato buona parte dell'esistenza a  raccontare le ingiustizie che colpiscono ‘gli ultimi’, ci si poteva mai aspettare una commediola di terz’ordine? Certo che no. Nessuno meglio di lui ha infatti saputo dar voce alla classe operaia, agli emarginati, a chi in una società di lupi non è riuscito per debolezza a farsi strada, ai cosiddetti ‘fantasmi’, ai cittadini ‘indesiderabili’ spogliati anche della propria dignità. Nel suo ultimo lavoro “Ken il rosso” mostra come si possa morire per la lentezza della burocrazia, o per l’assenza del cosiddetto welfare, e lo fa rivestendo di poesia un dramma di commovente devastazione. L’aspra condanna nei confronti delle disuguaglianze è raccontata senza filtri: un cristallina, ferrea denuncia verso quei Governi che impunemente ignorano i loro cittadini più deboli. Un’opera necessaria, quindi, un lavoro in cui la solida sceneggiatura e la magistrale interpretazione degli attori rappresentano la preziosa ciliegina su un prodotto pressoché perfetto.

1) Neruda, di Pablo Larraín
Sì, di nuovo lui, quel Larraín che dal 2006 regala al cinema veri capolavori, come ad esempio Neruda, film, a mio parere, ingiustamente escluso dalla short list dei titoli in corsa per una nomination ai futuri Oscar nella categoria Miglior Film Straniero. Non è sempre facile appassionarsi ad un biopic, ma quando dietro la macchina da presa si nasconde il quarantenne di Post Mortem, ecco che una biografia diviene per incanto un affascinante anti-biopic. Sì, perché la libertà che si prende Larraín nel descrivere una delle più importanti figure della letteratura latino-americana contemporanea, ha dell’incredibile. Soltanto un cileno avrebbe potuto infatti raccontare con infinito amore le contraddizioni di un mito come Pablo Neruda: edonista, donnaiolo, addirittura annoiato dal dover recitare in pubblico i suoi versi, però sempre e comunque animato da genuina simpatia verso i più poveri. Neruda è al tempo stesso un film politico su un poeta, e un’opera poetica su un politico, è un melodramma solenne, un thriller lirico, una finzione nella finzione, un gioco di scambio di ruoli e identità dove ogni personaggio è in cerca d’autore: un lavoro cerebrale  complesso tanto nella struttura narrativa quanto nella forma estetica. In una sola parola: imperdibile.

1) E' Solo La Fine Del Mondo, di Xavier Dolan
A chi ha avuto, come me, la fortuna di chiacchierare vis a vis con l’enfant prodige Xavier Dolan, non sarà sfuggita l’umiltà, né tantomeno la fermezza che contraddistinguono questo ragazzo dai modi gentili. In ogni sua opera, oltre a respirare un’atmosfera di sincera commozione, si rimane stupiti dal suo linguaggio cinematografico, sempre innovativo e originale. Questo purosangue di soli 27 anni dai lineamenti delicati, nasconde in sé un mondo colmo di sensibilità: un universo pronto a esplodere con potenza micidiale in ogni film che realizza. In Juste la fin du monde, Dolan si concentra sui meccanismi interni a un nucleo familiare dove, tra parole non dette, abbracci mancati e incomprensione, l’incomunicabilità diventa l’humus narrativo su cui costruire l’intera storia. Ogni frase o sguardo dei protagonisti racchiude un significato profondo e, nonostante l’ambientazione claustrofobica, nella mente del pubblico si apriranno sconfinati orizzonti lastricati di emozioni. Con un cast in stato di grazia, Dolan, tramite numerosi primi piani, è riuscito a far trasudare dai volti dei personaggi, odio, rabbia, amore, paura, dolore, compassione e nostalgia: un caleidoscopio di tinte forti mai scolorite. I detrattori del regista franco-canadese asseriranno di certo che si tratta dell'ennesimo suo film incentrato su gay, sofferenza e mancanza di comunicazione. Io, dal mio canto, spero invece che Dio salvi l’arroganza della giovinezza – a cui tutto è permesso – e preservi il nostro ‘enfant terrible’ dalle tentazioni ‘commerciali’ che, inevitabilmente, non tarderanno ad arrivare. 

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