Happy birthday Mr. Carpenter!

L’ultima volta che abbiamo avuto modo di vederne sui grandi schermi un suo lavoro è stato nel 2011, quando è approdato nelle sale cinematografiche italiane il The ward – Il reparto che, incentrato su una disturbata Amber Heard rinchiusa contro la sua volontà nel repartoinaccessibile di un ospedale psichiatrico dove cominciava presto a manifestarsi una pericolosa entità soprannaturale, non offrì praticamente nulla di nuovo (twist ending compreso) a tutti i seguaci irriducibili dell’orrore in fotogrammi.

Ma, essendo nato il 16 gennaio del 1948 a Carthage, nello stato di New York, ci sembra giusto celebrare il sessantanovesimo compleanno di John Carpenter, che non possiamo fare a meno di classificare come autentico maestro della Settima Arte ed il cui cortometraggio The resurrection of Broncho Billy, del 1970, si aggiudicò addirittura il premio Oscar.

E John prese... la macchina da presa!
Cortometraggio che precedette di quattro anni la bizzarra storia di fantascienza Dark star, vagamente ispirata ai kubrickiani 2001: Odissea nello spazio e Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba e co-sceneggiata dal Dan O’Bannon che si sarebbe in seguito occupato, tra l’altro, dello script di Alien e della regia de Il ritorno dei morti viventi.

Una bizzarra storia di fantascienza che, nata in realtà come tesi di laurea ed incentrata sull’assurdo equipaggio dell’astronave del titolo – tra cui una creaturina extraterrestre – impegnato ad andare a caccia di pianeti abitabili per distruggerli, non ha certo lasciato il segno quanto il successivo Distretto 13: Le brigate della morte, trasformatosi in un vero e proprio cult sebbene sia rivelato nel 1976 un fiasco al botteghino.

Del resto, stiamo parlando della pellicola che, costruendosi in maniera semplice su un gruppetto di persone assediate da una banda di criminali all’interno di un’isolata stazione di polizia di Los Angeles prossima alla chiusura, lascia tranquillamente intuire tutta l’influenza esercitata dal cinema western (con Howard Hawks quale autore maggiormente amato) su colui che si occupò due anni più tardi del suo primo grande successo: Halloween – La notte delle streghe.

Tra notti delle streghe e corpi estranei
L’Halloween – La notte delle streghe che, non solo permise a Jamie Lee Curtis di esordire ed introdusse la figura dello psicopatico mascherato e immortale Michael Myers segnando l’inizio di una vera e propria saga (comprendente anche i discutibili reboot Halloween – The beginning e Halloween II di Rob Zombie), ma, con due anni di anticipo rispetto a Venerdì 13 di Sean S. Cunningham, aprì la strada al filone slasher, costituito da elaborati basati su una sequela di fantasiosi omicidi ai danni di un gruppo di persone all’interno di uno spazio più o meno chiuso.

Limitandosi, però, soltanto a scrivere Halloween II – Il signore della morte di Rick Rosenthal, che ha anche prodotto come pure Halloween III – Il signore della notte di Tommy Lee Wallace, rispettivamente datati 1981 e 1982, per dedicarsi, sempre nel 1978, al thriller televisivo Pericolo in agguato, anche conosciuto come Procedura ossessiva e riguardante una donna alle prese con un ignoto persecutore.

D’altra parte, il piccolo schermo è stato tutt’altro che assente nella carriera del cineasta, in quanto per esso non solo ha sceneggiato Spiaggia a Zuma di Lee H. Katzin, Il giorno in cui voleranno le allodole di Richard Crenna, El Diablo di Peter Markle, Blood river – La vendetta corre sul fiume di Mel Damski e l’eco-vengeance con serpenti assassini Silent predators aka Predatori letali di Noel Nosseck, ma ha anche realizzato tra il 2005 e il 2006 Incubo mortale e Il seme del male, episodi della serie Masters of horror, costituita da mini-film realizzati dai maestri del cinema della paura.

Senza contare Elvis, il re del rock (sebbene, in realtà, ebbe anche diffusione nelle sale), che vide nel 1979 Kurt Russell nei panni del mitico musicista dai ciuffo ribelle ed i basettoni, e Body bags – Corpi estranei, del 1993, antologia televisiva in tre episodi co-diretta da Tobe Hooper e della quale il mitico John – che veste anche i panni dello zombi impegnato a fare da narratore all’interno di un obitorio – ha curato i primi due (uno incentrato su una donna assediata nottetempo da un maniaco in una stazione di servizio e l’altro su una grottesca cura aliena contro la calvizie).

Kurtmetraggi  
Tra l’altro, come ormai è risaputo, il buon Russell divenne da allora uno dei volti prediletti dell’universo carpenteriano, in quanto, oltre a concedere anima e corpo al camionista sbruffone Jack Burton, impegnato ad affrontare insieme ad un amico orientale una banda di criminali fuori dal comune nel divertentissimo Grosso guaio a Chinatown, esplosivo mix datato 1986 di azione, arti marziali e mitologia fantastica dagli occhi a mandorla, ha incarnato per ben due volte il condannato a morte Snake Plissken (Jena Plissken nella versione italiana) in 1997: Fuga da New York e nel tardo sequel Fuga da Los Angeles, rispettivamente del 1981 e 1996.

Tardo sequel che, grazie al notevole aumento delle dosi di spettacolarità e, soprattutto, alla decisione di accentuare in maniera affascinante l’anarchica personalità del protagonista (sorta di alter ego su celluloide dello stesso Carpenter) fino all’inaspettato epilogo da storia del cinema, risultò addirittura più riuscito del cupo e violento capostipite, ambientato in una futuristica Manhattan divenuta ghetto di massima sicurezza in cui Plissken era impegnato a recuperare il presidente degli Stati Uniti.

E, a proposito di collaborazioni russelliane, non dimentichiamo neppure La cosa, sulla carta rifacimento del classico della fantascienza La cosa da un altro mondo, concepito nel 1951 di Christian Niby e Howard Hawks, in realtà rilettura totale di trentuno anni più tardi con forte accentuazione del lato horror e, soprattutto, splatter. Perché, per merito in particolar modo degli eccellenti effetti speciali a cura di Rob Bottin, raggiunge altissimi livelli di raccapriccio la vicenda della missione scientifica nell’Antartide minacciata da una feroce creatura aliena in grado di assumere la forma di chiunque uccide, che appare allegoricamente associabile sia alla paura delle malattie (in quel periodo, si parlava soprattutto dell’AIDS) che alla capacità della donna di influenzare e manipolare la personalità del maschio (si pensi al fatto che essa manifesti fattezze non dissimili da quelle di una vagina).

La parafrasi di Hollywood  
Una rilettura che, insieme al già citato Halloween – La notte delle streghe, rimane senza alcun dubbio la vetta artistica più alta raggiunta da uno che già allora poteva essere considerato tra i maggiori talenti sfornati dall’invenzione dei fratelli Lumière; a proposito del quale, tra l’altro, già a metà anni Ottanta Carlo Scarrone e Giuseppe Salza scrivevano nel loro saggio Il cinema di Carpenter: La difficoltà maggiore nel definire il cinema di John Carpenter consiste nel trovare una chiave valida che ne sappia restituire la particolarità: una sua impronta esclusiva che lo ponga in maniera eccentrica rispetto ad Hollywood e, allo stesso tempo, lo faccia procedere secondo codici e regole squisitamente hollywoodiane. Quasi un cantiere dentro l’industria: un piccolo laboratorio, un atelier creativo all’interno delle grandi strategie delle Major Companies. Inventare, ingegnarsi con poche risorse, supplendo alla mancanza di mezzi, sapendosi adattare a tutte le mansioni. Sconfinando, così, in spazi molto vicini ai territori dei cineasti europei. Non è incidentale, infatti, che la sua fama di cult-director nasca prima in Europa, per poi riversarsi nella madrepatria. Eppure nessuno della nuova generazione di Hollywood è più intrinsecamente americano di John Carpenter. Nessuno più di lui incarna esattamente, paure, angosce, speranze. Più di Spielberg, Lucas, De Palma e Landis. Più ancora di Joe Dante, di Lewis Teague, di William Lustig. Per non parlare poi di Scorsese, Coppola, Cimino e Milius. Materiali d’Hollywood grezzi ripristinati al loro stato d’uso, rimessi in gioco con efficacia. Carpenter è, però, l'unico che ha come trademark, l’intenzione di prendere il suo cinema molto sul serio: integralmente, senza sottintesi e ammiccamenti. Come accadeva già durante il periodo classico hollywoodiano: onesti artigiani, seri professionisti, ma senza nessuna concessione all’autoironia. Per questo Carpenter è la parafrasi di Hollywood, di Hollywood e del suo cinema”.

La Hollywood per la quale, però, come è risaputo (e come abbiamo già avuto modo di vedere) non si occupò esclusivamente di film dell’orrore, in quanto, al di là della miscela romantico-fantascientifica Starman, del 1984 e su un extraterrestre impegnato a ricreare il corpo del marito defunto di Karen Allen, concretizzò nel 1992 la commedia Avventure di un uomo invisibile, con protagonisti Chevy Chase e Daryl Hannah.

Soltanto due anni in anticipo rispetto al suo ultimo grande capolavoro: Il seme della follia con Sam Neill, notevole esperimento dal sapore metacinematografico atto a giocare di continuo sul rapporto tra realtà e immaginazione, lasciando intravedere un’affascinante allegoria relativa alla forza dell’influenza dei media.

Il signore della follia
Ultimo grande capolavoro di una filmografia non priva di prove poco convincenti, dal Villaggio dei dannati scialbo remake 1995 dell’omonimo lungometraggio di Wolf Rilla al Fantasmi da Marte che raccontò nel 2001 di spettri marziani capaci di occupare i corpi dei terrestri sul pianeta rosso, ma che non possiamo fare a meno di considerare tra le più lodevoli dell’intera storia del cinema.

Una filmografia vantante non solo il Vampires che – guardando in maniera evidente a Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez – pose nel 1998 James Woods a capo di una squadra di cacciatori di succhiasangue commissionata dal Vaticano, ma anche il Christine – La macchina infernale tratto quindici anni prima da un romanzo di Stephen King ed impreziosito da una splendida colonna sonora anni Cinquanta volta a commentare le sanguinarie gesta di una Plymouth Fury gelosa del suo nuovo giovane padrone.

Oltre all’inquietante Il signore del male, del 1987, su un gruppo di scienziati e studiosi alle prese con l’essenza del male rappresentata da un liquido verdastro custodito in una scatola nei sotterranei di una chiesa americana, e Fog, affascinante favola nera che – oggetto anche di un inguardabile rifacimento per mano di Rupert Wainwright – giocò abilmente, nel 1980, sulla claustrofobia conferita dalla fitta nebbia calata sulla cittadina Antonio Bay per nascondere al proprio interno i vendicativi spettri di alcuni marinai morti annegati cento anni prima.

Uno dei tanti titoli di cui il grande John ha composto anche la colonna sonora, come pure nel geniale Essi vivono, di otto anni dopo, contaminazione di politica e fantascienza trasudante una evidente critica nei confronti della società capitalista reaganiana. 

Cosa chiedere di più a colui che, reduce oltretutto da un tour musicale che lo ha portato con la propria band anche in terra italiana a fine Agosto 2016, ha avuto modo, tra l’altro, di figurare tra gli sceneggiatori dei thriller Gli Occhi di Laura Mars di Irvin Kershner e Il giorno della luna nera di Harley Cokeliss?