Il Cinema della contestazione

Durante gli anni della contestazione, negli anni '60/'70 in Italia, il medium cinematografico impiega la metafora allo scopo di colmare lo iato insuperabile tra ciò che il film aspira a comunicare e l’idea stessa di un’esistenza radicale. Il cinema di questo periodo è da intendersi come un contributo all’attivazione delle singole coscienze, un’esperienza di riflessione mediata, però, dalla continua ricerca estetica. Artisti come Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Paolo e Vittorio Taviani e Gillo Pontecorvo avvertono la necessità di dar adito a una vera e propria assunzione di responsabilità, che si tramuti sul grande schermo in impegno ideologico. La strategia messa in campo consiste in una programmatica sfida contro una narrazione oggettiva, a favore dell’assunzione di un punto di vista soggettivo, a volte fin troppo astratto. Parzialmente occultata sembra essere la costruzione psicologica dei protagonisti, una scelta accentuata da un tipo di recitazione straniante e, al contempo, meccanica. Tale progettualità investe suggestioni che spaziano dalle tragedie greche (I cannibali di Cavani) a dimensioni metastoriche, per approdare infine alla condivisione di un territorio storico autentico o soltanto veritiero. Lo scopo, quindi, è sostanzialmente quello di utilizzare il passato per parlare della situazione presente.

In televisione Francesco d’Assisi della Cavani trova una sua speciale proiezione alla luce della contemporanea contestazione, come vero e proprio emblema della rivolta giovanile contemporanea. Un altro parallelo storico si può intravedere in Queimada di Pontecorvo. L’opera dovrebbe essere la cronaca della guerriglia di liberazione in un’isola delle Piccole Antille nella prima metà dell’Ottocento e, invece, rimanda alla contemporanea guerra del Vietnam. Pure il cinema alimentare o di consumo che dir si voglia si appropria di questa pratica militante: vedasi lo spaghetti western Quién sabe? di Damiano Damiani, che darà adito a tutto il successivo filone rivoluzionario-messicano.

La trasmissione d’idee che accompagna questi lavori si basa sul racconto di singole e collettive prese di coscienza, il tutto veicolato da urgenze populiste connesse a un certo tipo di epica. In questa dialettica si scontrano e risolvono in modo caotico i paradossi scaturiti da una generazione che ha sperato nel sogno rivoluzionario dell’immaginazione al potere. Sarà sufficiente un brevissimo lasso temporale per scardinare quel labile principio di speranza, destituendo di senso ogni funzione catartica contenuta nel finale. Ciò lo si vede tanto in Pasolini quanto nei fratelli Taviani. In Porcile il momento di presenza contestatrice viene incanalato un’esplicita parabola sulla società che divora i figli ribelli. Anche Sotto il segno dello scorpione e San Michele aveva un gallo dei Taviani sviscerano una gran dose di pessimismo, seppur mitigata in parte dal successivo Allosanfàn. Infatti, nelle sequenze finali di questo film l’unico a sopravvivere è il giovane Allosanfàn che ancora crede nel persistere della rivoluzione come unica fede.

Se da un lato abbiamo problematiche legate al ruolo sociale dell’arte, con la presenza di registi che vogliano incidere nei rivolgimenti storici impadronendosi in senso attivo della macchina da presa, dall’altro lato si registrano opere pronte a mostrare una classe - quella degli intellettuali/politici italiani - incapace di prendere decisioni e di tenere alti gli ideali nati a seguito della fine del fascismo. È proprio l’intellighenzia, la prima a rifiutare il sistema sociale per quello che è, evitando di combatterlo oppure combattendolo solo a parole, come si evince in Lettera aperta a un giornale della sera di Citto Maselli. Questo film possiede una qualità fondamentale: sottoporre a verifica un dato modello di militanza politica senza esentarsi dall’essere un lampante esercizio di autocritica. Ne La Cina è vicina, invece, l’inconfondibile humour nero di Marco Bellocchio arriva all’estremo nel momento in cui tratteggia il trasformismo politico di un professore della piccola provincia italiana e tira le fila del discorso sul falso riformismo del centro sinistro. Qualcosa di simile si era già visto in Prima della rivoluzione di Bernando Bertolucci, laddove il matrimonio d’interesse di Fabrizio toglieva qualsiasi valore alla tessera del partito comunista da lui posseduta.

Puntare il dito contro gli intellettuali equivale a rifiutare la propria classe di origine ovvero la borghesia, del tutto impreparata ad affrontare il futuro. I personaggi dei primi film di Bellocchio (I pugni in tasca), di Roberto Faenza (Escalation) e di Salvatore Samperi (Grazie zia) sono essenzialmente dei narcisisti che convengono alla stessa risoluzione finale: escogitare piani individualistici senza alcun desiderio di recuperare un’area di comunicazione estesa e, soprattutto, condivisa. Saranno i loro, gli unici gesti del dissenso davvero attuati che il grande schermo mostra in quegli anni al pubblico. In tutte e tre le pellicole sopraccitate, i pugni delle mani dei protagonisti si stringono come in una morsa dentro le tasche per poi esplodere in un rapporto autodistruttivo nei confronti del claustrofobico nucleo familiare, all’insegna del binomio eros e thanatos. In fondo, le malattie dei vari Ale, Alvise e Luca sono una sorta di monumento alla grande confusione e al malessere che avvolge lo spirito di un’epoca.