“Il Laureato”: uno tra i più ambigui finali cinematografici compie mezzo secolo

Il 22 Dicembre di 50 anni fa usciva nelle sale americane Il Laureato di Mike Nichols, un film che per diversi motivi si trasformò sia in emblema generazionale, che in punto di svolta della potente industria cinematografica statunitense. Nella storia hollywoodiana esiste infatti un prima e un dopo Il Laureato, e questo perché la pellicola di Nichols fu la dimostrazione che anche un prodotto dai presupposti modesti,  con un’insolita colonna sonora e un basso, bruttino e sconosciuto protagonista, sarebbe potuto diventare un grande successo a livello mondiale. Da quel momento la mecca del cinema iniziò quindi ad occuparsi di progetti marginali, e le produzioni indipendenti, o la gran parte di esse, integrandosi con i grandi Studios portarono inevitabilmente una fresca ventata di cambiamento.

Mike Nichols non fu però il primo regista a rompere gli schemi prestabiliti, basti pensare alla “vecchia Europa” dove, anni prima, nomi quali Fellini, Rossellini, De Sica, Truffaut e Godard avevano già stupito positivamente spettatori e critica. Ma Il Laureato, beh... Il Laureato arrivò come un tornado a sconvolgere il benpensante pubblico statunitense e ad esaltare gli animi contestatari dei futuri ‘sessantottini’. Già, perché nonostante nel film non si parli mai di politica, il malessere profondo della gioventù di fine anni Sessanta è magistralmente rappresentato dalla figura di Benjamin: un ricco neo laureato che possiede tutto. Tutto, tranne la forza e la volontà di reagire a una vita tracciata per lui da altri. Questo vuoto esistenziale che attanaglia il protagonista esprime la noia di chi è privo di bisogni, di desideri e motivazioni, come se l’avverarsi del sogno americano per la generazione precedente, quella dei suoi genitori, avesse appiattito la progettualità di quella futura. La laurea, ad esempio, per Benjamin altro non è se non obbiettivo inseguito e poi raggiunto solo perché rientrava nella normalità, ciò che, del resto, tutti si aspettavano da lui.

Venite madri e padri da ogni parte del Paese, e non criticate quello che non potete capire, i vostri figli e le vostre figlie sono al dì la dei vostri comandi, la vostra vecchia strada sta rapidamente invecchiando... perché i tempi stanno cambiando”. Questa strofa tratta dal lungimirante brano The Times They Are A-Changin', scritto da Bob Dylan nel 1963 e pubblicato l’anno successivo, è un chiaro esempio di quanto, negli USA, il fermento giovanile stesse in quel periodo crescendo. Ma Benjamin non appartiene a quei ragazzi che lottano per far valere le proprie idee, no, lui è apatico, indifferente e passivo, ogni cosa gli scivola addosso senza intaccargli la perenne indolenza: un tagliente ritratto della ‘società dell’opulenza’ in tutto il suo triste splendore.

Il carattere prettamente generazionale del film è dato dal posizionamento che il regista impone allo spettatore che Nichols spinge, fin dalle prime scene, a stare dalla parte di Benjamin, dal lato cioè dell’alienato che, seppur nella sua indeterminazione, pare di fatto l'unico ad accorgersi del nonsenso che caratterizza la vita intorno a lui. Dal punto di vista di Ben, divenuto immediatamente anche quello del pubblico, tutti coloro che gli si muovono a fianco sembrano accecati da un’esistenza priva di significato, che è poi quella per cui avevano lottato nei tanti anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale: il capitalismo era dunque giunto col suo pesante fardello colmo di danni collaterali. A questo stato delle cose, contro l’universo genitoriale l’unica forma di ribellione messa in atto dal protagonista del film sarà quella sessuale, una rivolta nata più dall’improvvisazione che da un’ideologia. La liaison amorosa tra Benjamin e la matura Mrs. Robinson, moglie del socio d’affari di suo padre, avviene infatti non per sua volontà, ma perché sedotto dall'annoiata e depressa ‘amica di famiglia’: Signora Robinson, sta cercando di sedurmi, vero?. E chi non ricorda Dustin Hoffman pronunciare queste parole?

In un’America fortemente puritana, raccontare il rapporto tra un ventenne e una donna ultra quarantenne era già di per sé un forte scossone al perbenismo di allora, e se si aggiunge la non troppo velata accusa a chi pensava di risolvere il fallimento del proprio matrimonio cercando scappatoie alternative, ecco spiegato uno dei motivi per cui Il Laureato fece breccia soprattutto tra i più giovani: una vera stoccata al moralismo.

Come, e perché, la torbida avventura tra i due terminò, è cosa chiara e risaputa: Benjamin si innamora di Elaine, una studentessa di Berkeley nonché figlia di Mrs.Robinson che, venuta a conoscenza del di lui flirt con la propria madre, dapprima lo allontana dalla sua vita, per poi, dopo una lunga serie di vicissitudini, lasciare sull’altare lo sposo scelto per lei dai genitori e fuggire in abito bianco su un pullman con Benjamin... E vissero tutti felici e contenti! Ma siamo proprio sicuri di un così lieto finale? Ora, può darsi che non tutti abbiano fatto caso all’ultima inquadratura, quella in cui la cinepresa si sofferma sui volti dei due ragazzi seduti in autobus. Inizialmente entrambi sorridenti, poco a poco i sorrisi scompaiono per lasciar nuovamente trasparire quel senso di incertezza e vacuità. Hanno compiuto il “rivoluzionario” gesto di fuggire insieme. Hanno ottenuto quanto volevano. Ma cosa volevano? Non lo sanno neppure loro. Per un attimo la loro espressione si fa di nuovo persa, come a chiedersi “Che abbiamo fatto?”, “E adesso?”, “Saremo felici?”, “È veramente questo ciò che vogliamo?”. Ecco, forse il finale non è poi così lieto.

La storia de Il Laureato ebbe inizio quando Lawrence Turman acquistò i diritti dell’omonimo romanzo, a quanto sembra autobiografico, scritto da Charles Webb nel 1963. Con quella mossa Webb guadagnò sì 25 mila dollari, ma perse ogni diritto sull’opera, compreso quello sulle percentuali d’incasso del futuro film! Al progetto di Turman si unì, con il suo scarso portafoglio, Mike Nichols, uomo proveniente dal teatro che aveva diretto una sola pellicola: Chi ha paura di Virginia Woolf?, con Elizabeth Taylor e Richard Burton. Ma nonostante il modesto budget la coppia Turman-Nichols riuscì a mettere insieme un’eccellente equipe tecnica in cui spiccavano lo sceneggiatore Calder Willingham e, soprattutto, il veterano direttore della fotografia Robert L. Surtees. La scelta del cast artistico fu poi una grande scommessa che solo una piccola produzione avrebbe potuto concepire: affidare il ruolo principale, inizialmente proposto sia a Robert Redford che a Warren Beatty, al poco noto Dustin Hoffman. La rampa di lancio per il firmamento hollywoodiano era stata montata, e a distanza di 50 anni l’attore americano ancora ringrazia. Ad affiancare Hoffman furono chiamate Anne Bancroft, straordinaria e affermata attrice che nei panni della provocante Signora Robinson consolidò la sua notorietà, e Katharine Ross, una graziosa ragazza ai suoi primi esordi cinematografici. Una piccola curiosità da sottolineare sta nell'età dei protagonisti: quando iniziarono le riprese la “matura Bancroft” aveva 36 anni, il “giovane Hoffman” 30, la “tenera Ross” 27.

Ma la storia continua. Al duo Turman-Nichols venne infatti la brillante idea di utilizzare, come colonna sonora, alcuni brani di Simon & Garfunkel: quale scandalo per le corporazioni della celluloide che fino allora avevano cercato di tenere alla larga il pop-rock dalle loro produzioni! Ma, come già detto, i tempi stavano cambiando. D’altronde, il 1967 fu un anno in cui, sia in campo culturale che politico accaddero eventi di estrema importanza: Gabriel García Márquez pubblica Cent’anni di solitudine; in Bolivia muore Che Guevara che si trasformerà in breve nella più grande icona rivoluzionaria di tutti i tempi; il chirurgo sudafricano Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore; i Beatles realizzano il loro ottavo album, quel Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band che nella lista dei 500 migliori dischi redatta dalla rivista Rolling Stone occupa la prima posizione. Così, mentre gli hippies riempivano strade e parchi con i loro fiori, e lo scrittore, attore e psicologo Timothy Leary elogiava dinnanzi a trentamila persone la micidiale droga del momento, l’LSD, pronunciando la frase “Turn on, tune in, drop out” (Accenditi, sintonizzati, abbandonati), a Turman e Nichols sembrò naturale inserire nella loro opera dell’ottima musica moderna.

Paul Simon, che aveva già scritto il pezzo Mrs. Roosvelt, lo riadattò intitolandolo Mrs. Robinson, e la Columbia Records, a poche settimane dall’uscita nelle sale de Il Laureato, decise di lanciare nel mercato discografico The Graduate (Original Sound Track Recording), che rimase per ben nove settimane al numero uno degli LP più venduti. Ma il brano che meglio rappresenta il senso di incomunicabilità e alienazione giovanile che pervadono l’anima di Benjamin è senza ombra di dubbio The sound of silence, il cui incipit Hello darkness my old friend è divenuto uno dei più celebri della storia del rock: non per nulla è proprio su queste note che si spegne il sorriso dei due protagonisti in chiusura del film.

Nel 1968 Mike Nichols ottenne con Il Laureato l’Oscar alla miglior regia, mentre Dustin Hoffman e Anne Bancroft rimasero a bocca asciutta. Ma, nonostante ciò, il bicchiere di Bourbon, la pelliccia leopardata, la sigaretta sempre accesa, il mitico reggicalze, la rossa Alfa Romeo Duetto, la scena di Benjamin pigramente sdraiato su un materassino in mezzo alla piscina, o quella in cui batte i pugni sui vetri di una chiesa rimarranno per sempre scolpiti nell’immaginario cinematografico di innumerevoli spettatori... e il suono del silenzio seguiterà a vibrare per molti, molti anni a venire.