Karlovy Vary International Film Festival, 56ª edizione - Giorno 2
E’ un’anteprima internazionale il tedesco The Ordinaries, terzo film in concorso al 56° Karlovy Vary International Film Festival. Diretto da Sophie Linnenbaum, (Norimberga 1986), regista che esordisce nella fiction dopo un corto e un documentario, può essere tradotto con I figuranti o Le comparse, e introduce in un mondo fantastico, sicuramente surreale, nel quale soltanto gli attori protagonisti hanno voce. Vivono protetti in un grande istituto, sorta di cittadella del potere, mentre gli altri restano fuori e svolgono lavori umili. Fa eccezione Paula, figlia di una figurante e di quello che la madre sostiene essere stato attore protagonista prima di perire durante una rivolta. E come tale è stata ammessa alla scuola di recitazione e ha stretto amicizia con una famiglia di dirigenti. La ragazza, però, dubita delle affermazioni della madre che ripete sempre la stessa frase: “Tuo padre era un attore protagonista ed è morto da eroe durante un massacro”. E con la guida di un servitore, Paula indaga nel mondo di fuori dove scopre la misera vita delle comparse e le repressioni della polizia. Scoprirà che il padre ha lasciato sua madre appena ha saputo che stava per dare alla luce una bambina “bianca e nera”, secondo il termine usato nel film, e che lei ha un incarnato roseo in conseguenza delle pillole che prende quotidianamente.
Scritto dalla regista insieme con Michael Fetter Nathansky, il film è una grande produzione di due ore che fa spesso il verso ai musical americani degli anni Sessanta in una scenografia e con costumi di quell’epoca. Molto probabilmente le trovate a livello di scrittura potevano apparire interessanti, e fra le tante il fatto che soltanto gli attori protagonisti potevano emettere suoni musicali come sottofondo sonoro delle loro recite, ma nello svolgimento del film vediamo due ceti sociali contrapposti e una ragazzina alla ricerca del padre. Niente di nuovo, dunque, e con un andamento monotono che si trascina fino alla conclusione dove l’eroina si batte per l’uguaglianza tra protagonisti, figuranti e comparse: neri o bianchi! Nel cast, Fine Sendel, Jule Böwe, Henning Peker.
Gradita sorpresa invece il film ceco in concorso, Slovo (La parola) di Beata Parkanovà (1985), che ispirandosi a una vicenda di famiglia narra la drammatica situazione del notaio Vàclav Voijr nel 1968. Non nuova certamente la resa dei conti col passato: dopo la caduta del Muro di Berlino molti cineasti cechi hanno denunciato crimini e malefatte del regime, ma il film della Parkanovà, che nel 2018 realizzò l’acclamato film Moments, racchiude in 114 minuti una storia esemplare magistralmente interpretata da Martin Finger e Gabriela Mikulkovà. Mette in evidenza la dirittura morale del notaio e il supporto della moglie che pure avendo un carattere totalmente differente lo sostiene con forza e coraggio in un momento drammatico.
La storia è semplice: apprezzato e rispettato notaio di provincia, Voijr non ha aderito al partito comunista. E nell’estate del ’68 riceve la visita di due emissari del partito che gli chiedono di iscriversi. Rifiuta. Gli viene vietato di esercitare, si ammala e trascorre un brutto periodo in ospedale. Dimesso, può riprendere l’attività, ma è soltanto una tregua. Quando gli emissari tornano, e questa volta in termini assolutamente intimidatori, il notaio considera che ha risparmiato abbastanza e decide di ritirarsi in campagna. Niente di nuovo, dunque: la storia è nota. Fa la differenza, oltre all’interpretazione, il rigore della narrazione, senza tempi morti, e l’introspezione psicologica dei protagonisti nel contesto familiare, inclusi suocera e bambini.
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(Foto: Slovo)