L'ultima Thule: Il posto delle fragole

Il posto delle fragole (Smultronstället) è uno delle opere più celebri di Ingmar Bergman. Il film fu girato fra gli studi di proprietà della Svensk Filmindustri e la città di Lund nel 1957, lo stesso anno de Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet). Il posto delle fragole vinse innumerevoli premi, tra cui l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, ottenendo una candidatura all’Oscar per il miglior soggetto originale.  

Il protagonista della pellicola (interpretato dal maestro del cinema muto scandinavo Victor Sjöström) è un attempato medico, un uomo gelido e individualista che ha scelto per sé il ruolo di distaccato raisonnieur nel dramma della vita. Per questo, il nome Isak Borg - Is Borg tradotto significa propriamente “fortezza di ghiaccio” - gli calza a pennello. Il tema dell’isolamento e dell’incomunicabilità emerge immediatamente sin dalle scene iniziali, nel momento in cui Borg riflette malinconicamente sulla sua esistenza e sui pochi anni che gli restano da trascorrere. Seduto al suo scrittoio mugola: “I nostri rapporti col prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana”. La solitudine è immensa, la sua sconfitta è totale. La frase “Sono morto pur essendo vivo”, ripetuta amaramente da lui per ben tre volte nel corso del film diviene un costante e straziante leitmotiv. Più tardi il figlio Evald (Gunnar Björnstrand), sull’onda della sua metanoia personale confesserà alla moglie Marianne (Ingrid Thulin): “Vorrei essere morto”, rifiutando qualsiasi possibilità di generare un nuovo essere umano. Amara constatazione di un percorso che, se non interrotto, porterà l’erede di Isak Borg a seguire le orme paterne, divenendo un doppio dell’insensibile genitore. In realtà, Bergman confessò di aver modellato un personaggio in tutto e per tutto uguale al proprio padre e a lui stesso.

Ne Il posto delle fragole, il nostro eroe deve intraprendere un viaggio che lo condurrà da Stoccolma all’Università di Lund, dove sarà festeggiato in pompa magna in occasione del suo giubileo professionale. Parallelamente, s’incamminerà alla ricerca del suo “posto delle fragole”. Ma, cosa si cela davvero sotto quest’espressione? In Svezia, il “posto delle fragole” è un epiteto metaforico per indicare un sito in cui ci si rintana durante l’infanzia e che svanisce con il sopraggiungere dell’età adulta. Il suo ritrovamento è emozionante e appagante.

Per mezzo d’alcune visioni oniriche, il protagonista riesce pian piano a comprendere come poter spezzare l’egoismo che gli attanaglia il cuore: la chiave risiede nella conoscenza del proprio subconscio. In ordine cronologico, si avvicendano nel corso di ventiquattro ore un incubo, una ricostruzione voluta di un fatto al quale il soggetto non aveva assistito direttamente, un ripensamento in chiave psicoanalitica e, infine, una trasposizione del passato in un cheto presente.

In tali rêverie, la realtà interiore si sostituisce gradualmente a quella esteriore e l’a-temporalità dell’inconscio domina. Ciò lo si scorge in un susseguirsi di figure simboliche. Si veda, ad esempio, l’orologio privo di lancette che presagisce la futura fine del mondo. Questa sinistra allegoria apparirà altre due volte ne Il posto delle fragole. Dapprincipio, nel sogno angoscioso che turba l’animo del vecchio e poi in mezzo agli oggetti mostrati dalla centenaria genitrice. Anni dopo, in Sussurri e grida la natura onnipresente del tempo si manifesterà in maniera opposta, espressa nella meccanica melodia emessa da pendole e carillon.

Tornando ai sogni, questi sono sostanzialmente autentici e hanno più volte tormentato il sonno dello stesso Bergman: il carro funebre (dichiarato omaggio a Il carretto fantasma) che si capovolge e lascia cadere sulla strada lastricata una bara aperta, un pessimo esame, una moglie che copula con il suo amante in luogo pubblico. È lecito affermare che il secondo e il terzo coincidano con una pausa del viaggio, mentre il primo e il penultimo rinviano a pregnanti allegorie, filtrate attraverso la psicoanalisi freudiana e il surrealismo. La serena conversione di Isak Borg nei confronti del suo prossimo si esplica nell’intensa immagine finale in cui la cugina Sara (Bibi Andersson) lo prende per mano e lo conduce in un luogo da cui possono vedere i genitori d’Isak che felici fanno ampi cenni di saluto con la mano.  E, se all’inizio la nuora Marianne mostrava per lui un malcelato odio (“Lei è un egoista…senza scrupoli e non ha mai ascoltato altri che se stesso”), nel finale i suoi sentimenti sono mutati, tanto che la sua profonda antipatia si è tramutata in affetto. Il Bergman della fine degli anni ’50 crede ancora nella speranza che l’uomo moderno possa e voglia uscire dal circolo vizioso dell’isolamento.