Paolo Sorrentino: il regista “in più” - Un viaggio tra decadenze e solitudini umane

Il cinema è una possibilità di sopravvivenza di fronte alla delusione che ci offre tutti i giorni la realtà” (La grande bellezza)

Nel panorama cinematografico italiano di fine anni ‘90, dalla Napoli bene delle vie del Vomero e della media borghesia, si faceva largo il nome di quello che oggi è considerato uno dei Re del cinema italiano contemporaneo, uno dei pochi che ha saputo coniugare uno sguardo cinematografico ‘indipendente’ a un cinema di successo e di grandi numeri. Il regista “in più”, parafrasando il titolo del suo esordio cinematografico. Il Paolo Sorrentino nazionale, nato in quel di Napoli nel 1970, rimasto tragicamente orfano a solo diciassette anni, e che oggi non è solo un Premio Oscar di cui farsi vanto, ma un regista italiano apprezzato e acclamato in tutto il mondo. Specie in America, dove il suo cinema magniloquente e mai ordinario, ha saputo far breccia per più di una ragione.

Tutto ha inizio verso la metà degli anni ’90 con una serie di incursioni a vario titolo nel mondo della televisione e del cinema (co-regista, sceneggiatore, assistente) e alcuni cortometraggi di successo, tra cui L’amore non ha confine, corto che getta le basi non solo dello stile e dei contenuti sorrentiniani, ma anche di quel sodalizio duraturo e fortunato con la nascente casa di produzione Indigo Film, e con quell’idea di cinema solo velatamente indipendente poi sviluppata in lungo e in largo nei lavori a venire.

Dopo l’esordio in sordina e con piccoli film a basso budget dei primi anni, il cinema del regista partenopeo sperimenta infatti una velocissima ascesa calamitando l’attenzione del panorama internazionale, e di quello americano in primis. Ora, con un Oscar (quello a La grande bellezza) e numerosi premi e riconoscimenti in tasca, Sorrentino pare aver invece spiccato letteralmente il volo, grazie a quello che è oggi noto come il suo cinema dei contrasti, dove alla grande bellezza estetica, al gusto superbo per l’inquadratura, per le geometrie e simmetrie visive, si contrappone spesso il retrogusto torbido, drammatico e mortificante di esistenze abbrutite dalla loro stessa marginalità. Esistenze volatili che non sembrano mai trovare un loro posto. Sobborghi geografici ed esistenziali che a volte combaciano e altre volte, invece, fanno scintille tra loro, e dove l’elemento della solitudine gioca (quasi) sempre un ruolo cardine. La mancanza di un ordine cronologico di eventi quale elemento riconoscibile di un realismo volto a ricreare il ‘disordine’ narrativo della vita. Il riverbero del grande cinema senza tempo (Fellini su tutti, ma anche Antonioni, Bergman e Scorsese) e dell’odissea emotiva dell’uomo, rivivono così nelle maschere, nei nuovi mostri, nella lente deformante del cinema sorrentiniano. Un cinema dove in fondo a ogni grande bellezza si accompagna almeno un altrettanto enorme “deformità”.

L'uomo in più (2001)
L’opera prima di Paolo Sorrentino è una cartina di tornasole per tutte le tematiche che da sempre ruotano nel panorama audiovisivo di questo regista. Un calciatore refrattario ai ‘giochetti sporchi’ del calcio scommesse e con il sogno folle di allenare, e un cantante dal passato glorioso e dalle plurime dipendenze (soldi, cocaina, donne, il pesce di ‘qualità’), sono le due maschere a confronto ciniche e declinanti dell’opera prima di Sorrentino. In una Napoli anni ’80 la giostra di vizi, difetti e dipendenze segna campo e controcampo di due esistenze smarrite (come quasi tutte quelle sorrentiniane), vittime del loro stesso talento e/o fallimento. Film datato 2001 che instaura la fortunata collaborazione con Tony Servillo, divenuto poi attore immancabile e simbolo di quasi tutte le pellicole future, e che mette subito in luce tutti gli stilemi e i paradigmi del cinema del Sorrentino che verrà, segnando inoltre il primo giro del carosello di bellezze e decadenze da lì in poi ritratte. Il tutto dispiegato in un filo conduttore profondamente musicale e contrassegnato da un’atmosfera avvolgente di solitudini inquiete (Nient’altro che la notte) e sancito dalla drammatica e ambigua esortazione delle note di chiusura: “I will survive”.    

Le conseguenze dell'amore (2004)
Nonostante il premio a La grande bellezza, Le conseguenze dell’amore è senz’altro uno dei film gioiello e più rappresentativi di Paolo Sorrentino. Ancora sulle tracce di esistenze sbranate dal loro stesso male e male di vivere, con Le conseguenze dell’amore Sorrentino traccia l’estetica decadente del suo cinquantenne Titta Di Girolamo (Tony Servillo in un altro dei suoi ruoli cinematografici più memorabili). Nella perfetta cornice Svizzera, dove tutto scorre placido e ordinato e niente e nessuno sembra mai essere fuori posto, Titta Di Girolamo è invece un uomo sfuggente, di grandi silenzi, osservatore quieto della felicità altrui e inquieto protagonista della propria infelicità. Un’infelicità vestita di un fare noncurante, di pochi vizi e grandi dipendenze. Una vita scandita dai soldi e dalle droghe, dai percorsi sempre uguali, che come nel lento andare delle sequenze (iconiche) della scala mobile, è inghiottita nel suo apatico gioco di rimandi e specularità. L’ordine dell’infelicità che verrà poi interrotto, spezzato dalla fantasia, e da quell’immaginazione che “quando manca rende tutto opaco, incolore, uguale”. Di contro, quando la fantasia prende il sopravvento sulla realtà, comandandone i movimenti, si abbassano le difese, si sgretolano i muri. Si resta indifesi e vulnerabili, e pronti a soccombere alle conseguenze dell’amore. “I timidi notano tutto ma sono molto bravi a non farsene accorgere”, dirà lui. Timido e re del bluff, il protagonista Titta in fondo incarna manie, inadeguatezze e vulnerabilità del tempo presente, mentre la sua emozionalità sommessa, introiettata entra scena dopo scena nell’anima dello spettatore. Un film di un intimismo superbo, capace di generare empatia con i soli movimenti di macchina e di creare senso attraverso una sottrazione eloquente e consapevole

L'amico di famiglia (2005)
Con L’amico di famiglia l’esaltazione del freak, del ripugnante e dell’umanamente intollerabile raggiunge il suo apice massimo. Con la storia di un laido usuraio, il cui aspetto ributtante fa il paio con la cupezza ordinaria del suo ‘lavoro’ di strozzino e una vita di solitudine estrema condivisa con la madre paralizzata, Sorrentino sgretola la grande bruttezza umana, vivisezionandola in ogni sua parte e forma. I tic, le ossessioni e i rituali del protagonista Geremia interpretato da un maniacale e sorprendente Giacomo Rizzo, sono una vera e propria metafora di un mondo brutto, disonesto, incapace di aspirare al “bello”, e dove a ogni malvagità corrisponde una malvagità ancora peggiore, in un terrificante gioco al ribasso da cui sembra non esserci via di fuga. Con quest’opera inquietante e magnetica, Sorrentino svolge il filo della nostra coscienza, giocando a farci sentire migliori del suo Geremia, per poi ricondurci senza pietà al suo livello, e anche molto più in basso. Un film contraddistinto dall’onirismo tipico del regista napoletano, ma sorretto da uno script finemente articolato, dove tutto torna e tutto fila nel sottile e perverso gioco al “chi sa – e deve - essere più mostruoso”.

Il divo (2008)
Il divo rappresenta un po’ il punto di volta o spartiacque nella filmografia di Sorrentino. Si tratta infatti del film che segna il passaggio del piccolo regista indipendente a quello che sarà invece il regista di grandi budget e successi in terra americana – segnato dalle produzioni che vanno da This Must Be the Place in poi. Il divo, spaccato brutale e drammatico di un pezzo di storia italiana contemporanea che satirizza e destruttura la controversa figura di Andreotti, racchiude infatti sia la ‘misura’ e compostezza dei lavori precedenti, ma anche la malia e la grandezza di quelli che verranno poi. Opera sotto diversi punti di vista di transizione, Il divo gioca tridimensionalmente con le storpiature umane, la gobba di Andreotti che al pari di quella del Geremia, rappresenta non solo difetto fisico ma difformità umana, elemento di rottura all’interno di una realtà sempre più lontana dall’essere chiara e pura. La politica italiana degli anni ’90, le stragi, le interconnessioni strettissime tra politica e “malaffare” sono equamente dosate in uno dei film in assoluto più riusciti del cineasta partenopeo. Con il suo linguaggio di contrasti e paradossi al servizio di una satira lucida e analisi spietata, Sorrentino rintraccia tra i cunicoli bui della nostra società i tratti di un vivere empio, moralmente corrotto da un lato e di un divismo esasperato dall’altro. Dall’aspirina sciolta a ripetizione nell’acqua per via di quelle storiche emicranie, ai banchi del tribunale dove si svolgeranno i processi a suo carico, il Giulio Andreotti di Tony Servillo (ancora una volta in una interpretazione perfettamente interiorizzata) incarna la corruzione dell’uomo e (soprattutto) la sua grande solitudine. Il ritratto controverso di una esistenza umana che racconta e trascende la peculiarità della sua Storia per incarnare quella di un intero Paese.     

This Must Be the Place (2011)
Primo film interamente girato in lingua inglese, This Must be The Place (tributo all’omonimo pezzo dei Talking Heads) segna l’inizio del cinema di Sorrentino ‘in grande’. Con This Must Be the Place Sorrentino poggia sulla spalle di uno Sean Penn rockettaro e decadente (Cheyenne), tutto il peso di un passato da riscattare. Il trucco, il mascherone, un’apparenza fortemente e tristemente connotata, sono ancora una volta i segni inconfondibili dell’esistenzialismo estetico alla Sorrentino, e che qui sono “esportati” all’estero, in una struttura ben più ampia e ‘sfarzosa’ dei lavori precedenti ma facilmente riconducibile ai tratti comuni degli altri lavori. L’on the road del protagonista è il percorso doloroso e nostalgico alla ricerca di sé stesso e delle proprie origini, una sorta di via crucis del dolore dove il trasformismo del corpo non nasconde e non silenzia la sofferenza dell’anima, ma anzi la esalta e la sublima. Un ritorno a tematiche già affrontate in precedenza, ma con uno stile ben più ‘aggressivo’, colorato, eclettico. Il nuovo Sorrentino made in Usa.

La grande bellezza (2013)
Con La grande bellezza la magniloquenza sorrentiniana raggiunge il suo apice, sublimando l’immagine di decadenza di una Roma bellissima e turpe, abitata da un carrozzone di maschere in disarmo, militi ignoti del nostro abbrutimento umano e sociale. Vizio, arrivismo, arroganza, ignavia. Jep Gambardella (l’immancabile Tony Servillo), principe indiscusso de “la società che conta”, si muove all’interno di una mondanità corrotta, e una metropoli che è specchio falsante delle proprie brutture. Le ombre de La dolce vita felliniana che fu emergono indistinte come ricordi velati dal sottobosco di meschinità e opportunismo dilaganti che attraversano l’opera. Decadenza e bellezza viaggiano a braccetto mentre l’estetica è e rimane ancora l’elemento in grado di offuscare tutto, dettare legge sulla ‘volgarità’ umana. Controversa e contraddittoria, amata e odiata, La grande bellezza è un’opera fiume (150 minuti per la prima originale e 180 per quella integrale) di eccessi e sublimazioni, ridondante e prolissa per certi aspetti, ma magistralmente raccordata nei confini di una contemporaneità cinica, disorientata, e ‘immemore’ del proprio illustre passato. La bellezza declinata in tutte le sue mille sfumature, nei suoi contrasti, nelle sue contraddizioni emerge qui in tutta la sua forza, in un film che lancia definitivamente il nome di Sorrentino sotto i riflettori del cinema internazionale e che lo nomina regista italiano in grado di riportare l’Oscar a casa nostra dopo ben 15 anni. Da qui in poi niente sarà più come prima.   

Youth - La giovinezza (2015)
Da La grande bellezza si passa poi a la grande vecchiaia nel senso ribaltato del titolo Youth – La giovinezza. Harvey Keitel e Micahel Caine vestono i panni di due amici ottantenni di vecchia data cui non resta che elucubrare sul tempo andato, e cercare di far fruttare al meglio il tempo che resta. Ancora una volta, si parla di grandi solitudini, mentre sullo sfondo l’estetica brillante e avvolgente resta padrona della scena. Il remoto e paradisiaco stabilimento termale svizzero dove i due amici trovano ‘rifugio’ diventa vero protagonista del film. Di contro, la rarefazione dei contenuti sembra qui subire un ulteriore scossone, e il de senectute sorrentiniano pare aggiungere concettualmente poco o niente ai lavori precedenti. Ancora numerosi piovono però gli apprezzamenti, per un regista oramai conosciuto, riconosciuto e osannato (anche nei cosiddetti momenti di ‘bassa’), un po’ da tutti.

The Young Pope (2016)
Ultima (per ora) tappa di questa mirabolante carriera è invece l’incursione per Sorrentino nel mondo sempre più rutilante delle serie tv. The Young Pope è infatti una mega-coproduzione internazionale (Sky, HBO e Canal +) in cui Jude Law vesti i panni di Lenny Belardo divenuto primo papa americano della Storia (Pio XIII), tra sospetti, cambi di rotta, e rivoluzioni. Un’infanzia da orfano, il valore cangiante della fede, i dubbi dell’uomo, e le contraddizioni si mescolano per parlare ancora una volta di solitudine, e di vite ‘imprigionate’, confinate nel loro stesso ‘credo’. La realtà ecclesiastica si piega e si flette dinanzi ai capricci della volubilità umana, mostrando luci e ombre di un Papa ‘umano’, spogliato del suo rigore teologico e vestito invece del sarcasmo e dell’ironia tipici dei mascheroni alla sorrentino. Un cast di grandissimi (in cui oltre a Jude Law spiccano anche il nostrano Silvio Orando nei panni del Cardinal Voiello e Diane Keaton in quelli di suor Mary) per una serie (per ora - dieci episodi in tutto) che sembra avere davvero tutte le carte in regola per fare il ‘botto’. Stay Tuned!