Salò o le 120 giornate di Sodoma: il testamento spirituale di Pier Paolo Pasolini

Nella seconda metà del febbraio 1975, Pier Paolo Pasolini inizia le riprese di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Data la fine violenta all’idroscalo d’Ostia, Pasolini non ebbe tempo di completare il montaggio del suo film sul potere. La pellicola fu presentata il 22 novembre 1975 a Parigi, dopo tre settimane dall’omicidio del regista. Per  quando riguarda la distribuzione, sul mercato italiano uscì nel gennaio 1976 e subito l’opera in questione venne sequestrata. Fino al 1978 il lungometraggio subì varie traversie legali, i capi d’accusa andavano dall’imputazione d’oscenità a quella di corruzione di minori. Infine, il film venne assolto da simili dicerie capziose grazie alla Corte d’Appello di Milano, che lo reputò «opera d’arte e documento di raro valore etico». Rispetto all’originale, circola ora una versione priva di 21 minuti per 589 metri di pellicola.

Con Salò, Pasolini muta di colpo la maniera di riprendere la realtà. L’esperienza fenomenologica che albergava in film come Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte cessa di esistere. Il mito fisico celato dietro la sensualità lieta e gioiosa è ormai solo un ricordo fugace. Il regista recupera una rielaborazione del testo Les 120 journées de Sodome del Marchese De Sade, a cui il suo amico e collaboratore Sergio Citti aveva a lungo meditato. Questo ultimo affiancherà poi Pasolini in fase di sceneggiatura, insieme a Pupi Avati. L’idea di trarre un film dall’opera libertina di Sade occupa la mente del cineasta friulano dal momento in cui decide di trasporre l’azione dalla Francia di Luigi XIV agli ultimi giorni della Repubblica di Salò. Accanto a un’ambientazione in pieno periodo fascista, Pasolini decide di impiegare uno spazio allegorico strutturato secondo il modello de La Divina Commedia. In un’intervista alla tv svizzera, il regista afferma che la struttura dantesca era già implicitamente presente nell’idea di De Sade.

Il cronotopo dello spazio acquista un ruolo di primo piano in Salò. Egli situa il dramma in una claustrofobica dimora infernale, suddivisa in un Antinferno e tre gironi: girone delle manie, della merda e del sangue. In queste tre «cornici» diegetiche spadroneggiano quattro libertini: un’Eccellenza (lo scrittore Uberto Paolo Quintavalle), un Duca (Paolo Bonacelli), un Monsignore (l’amico delle borgate Giorgio Cataldi) e un Presidente (Aldo Valletti). Per vellicare i loro bassi istinti, un quartetto di ex meretrici raccontano storie libidinose di cui sono state protagoniste, accompagnate al piano da un’altra donna. I personaggi entrano così nel flusso della narrazione al pari di funzioni sociali e simboliche. Lo stato civile benestante dei protagonisti viene ribadito anche dalle colte conversazioni che i quattro erotomani intessono nel loro salotto, citando Proust, Pound, Baudelaire e Nietzsche. D’altronde, il nome di scrittori-saggisti come Blanchot, De Beuvoir, Klossowsky, Barthes e Sollers appare già in apertura, come sorta di ricerca bibliografica su Sade. È la prima volta che un regista si propone tale complesso citazionale in calce ai titoli di testa.

In Salò solo i raptus sessuali dei lussuriosi signori scardinano il congegno temporale, altrimenti fisso nella sua monotona ripetitività. La liturgia cerimoniale fa da basso continuo all’asfittico orizzonte degli eventi: si tratta di rituali blasfemi, generati dal delirio d’onnipotenza dei libertini. Ciò lo si può vedere nella carnevalata del matrimonio omosessuale, oppure nel pomposo banchetto, in cui la portata principale è un piatto d’escrementi. Lo spettatore potrebbe bollare l’opera postuma di Pasolini come un maniacale florilegio d’atti di perversione. Gli ingredienti ci sono tutti: profanazione biologica, voyeurismo, oroanalità, procrastinazione, interruzione del coito, torture e scatofagia. In realtà, l’eccesso coincide con il nulla e l’orrore viene smontato, rivelando il lato ridicolo del potere.

Pur partendo dalla fosca evocazione di un passato concluso, ovvero l’era fascista, si può ipotizzare che gli strali accusatori di Pasolini ricadano sulle depravazioni della sua epoca. Il pubblico assiste disarmato all’aberrazione della ragione, all’iperbole del corpo ridotto a carne da macello. La dignità personale dei singoli è irrimediabilmente persa durante il concorso dei deretani senza volto, dove il vincitore sarà ucciso. Vi è una dimensione collettiva forzata per cui i giovani vengono distinti fra di loro, nel ciarpame della nuda carne ostentata, solo per mezzo del loro nome di battesimo. L’erotismo continuamente reiterato acquista un significato politico: è una denuncia all’attuale società dei consumi in cui si assiste alla mercificazione del sesso come forma di sfruttamento dell’uomo da parte di un altro uomo. Le vittime stesse non sono del tutto innocenti, anzi sono colpevoli di assimilarsi all’indole distruttiva dei loro padroni oppure subiscono quest’escalation di violenza, senza osare ribellarsi all’ordine precostituito.

Per quanto riguarda gli attori, se nella sua carriera cinematografica aveva da sempre prediletto dei non professionisti prelevati dalle borgate e immessi sul set, come Ninetto Davoli, tutto ciò ora non è più possibile. In Salò, Pasolini ricerca il massimo del professionismo a livello stilistico. Per le parti delle vittime femminili, ad esempio, sceglie le sue interpreti nel mondo della moda. Tuttavia, la lavorazione del film si rivela molto difficile, a causa delle frequenti ribellioni degli attori, che rifiutano di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li aveva immaginati il regista. Una curiosità: Pasolini scrittura Hélène Surgere (doppiata in italiano da Laura Betti) e Sonia Saviange per l’ottima prova che entrambe hanno dato nel film di Paul Vecchiali dal titolo Femmes, Femmes, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 1974. Nel suo lungometraggio fa re-interpretare alle due attrici francesi un dialogo estratto dal film prima menzionato, ma in Salò a un tratto la pianista sussulta in un grido di rabbia misto a dolore, che viene prontamente camuffato dalla signora Vaccari durante la narrazione.