The year of Wonder: gli 11 migliori film del 2017
Essendo giunto alla conclusione anche questo 2017, come ogni anno non si può fare a meno di tirare le somme sui dodici mesi appena trascorsi e di stilare, di conseguenza, una classifica dei migliori film visti sul grande schermo. Bisogna ammettere che, sebbene la Settima arte abbia lasciato più volte intuire forti segnali di stanchezza in un XXI secolo trasudante effetti digitali e script noiosamente dilatati all’inverosimile, l’anno appena trascorso ha avuto modo di riservare diverse sorprese inaspettate. Tanto che, sebbene nel 2015 e nel 2016 fu per chi scrive difficile scovare almeno cinque titoli veramente capaci di rendere ancora giustizia alla favolosa invenzione dei fratelli Lumière, stavolta, pur non avendo potuto visionare l’intera produzione datata 2017, vi è stato modo di elencarne addirittura undici. Precisando che sono stati presi in esame solo lungometraggi regolarmente distribuiti nelle sale italiane e che non si tratta di una classifica, bensì della loro analisi critica in ordine di uscita su suolo tricolore.
The founder
L’incontro-scontro tra due imprenditori idealisti e uno senza scrupoli che non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di avere successo: i fratelli Mac e Dick Mac Donald, ovvero John Carroll Lynch e Nick Offerman, e Ray Kroc, commesso viaggiatore per un’azienda il cui prodotto di punta è un frullatore usato nei drive-in. Commesso viaggiatore cui concede anima e corpo un eccellente Michael Keaton e che prima intuisce il potenziale per trasformare in un franchising l’attività di vendita di hamburger nella California del sud degli anni Cinquanta messa in piedi dai due, poi fa di tutto per sottrargli la società e creare un impero miliardario.
Forte di un veloce montaggio e degli splendidi duelli verbali forniti dalla sceneggiatura, John Lee Hancock ripercorre in fotogrammi la genesi della più nota catena di fast food del mondo non per farne un manifesto elogiativo, ma con l’evidente fine di inscenare la determinazione per il raggiungimento del successo in un sogno americano di cui, però, si tende sempre a mostrare, nella realtà, soltanto il lato positivo ed accattivante, celando tutto il cinismo e l’avidità qui portati alla luce per rivelare il triste specchio di una società a stelle e strisce (ma anche dell’intero globo) molte volte dominata da affaristi pronti ad appropriarsi del talento altrui. Tanto affascinante nel ripercorrere l’evoluzione della vera storia di quello che è diventato un autentico fenomeno culturale, quanto amaro nel renderci consapevoli della maniera in cui essa si è sviluppata.
La battaglia di Hacksaw Ridge
Sotto la regia di Mel Gibson, lo spidermaniano Andrew Garfield concede splendidamente anima e corpo al medico dell’esercito americano Desmond Doss, obiettore di coscienza che, realmente esistito, rifiutava l’uso delle armi e che venne insignito della citata Medaglia d’Onore dal Presidente Harry S. Truman per aver salvato da solo, con le proprie forze, oltre settantacinque compagni durante la brutale battaglia di Okinawa nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Superata una prima parte costituita dall’addestramento militare del protagonista e dal suo rapporto con i genitori e con l’amata Dorothy alias Teresa Palmer, si passa ad una seconda che, tra cadaveri a terra, laghi di liquido rosso e ratti scorrazzanti, testimonia ancora una volta l’irriverente marchio di riconoscimento dell’autore de La passione di Cristo, il quale mette in piedi un inarrestabile tour de force di sangue e morte che riesce nell’impresa di apparire anche più e realistico rispetto a quanto mostrato nel chiacchieratissimo Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Ma solo per concretizzare un incitamento in fotogrammi alla fede, accompagnato oltretutto da un’ottima colonna sonora a firma di Rupert Gregson-Williams, vergognosamente ignorata dalle candidature al premio Oscar.
Logan – The Wolverine
Con una polverosa ambientazione notturna, siamo in un 2029 dai mutanti quasi totalmente scomparsi e l’artigliato Logan che, vulnerabile ed ammaccato, nonché nuovamente incarnato da Hugh Jackman e costretto a portare sulle spalle il peso della propria immortalità, racimola qualche dollaro come autista a pagamento e, nascosto in una fonderia abbandonata ai margini di un campo petrolifero esaurito in Messico, si prende cura di un indebolito Charles Xavier, ancora una volta interpretato da Patrick Stewart.
Da qui, in mezzo a corpi pronti ad essere perforati alla maniera di Freddy Krueger e l’entrata in scena di un Calibano alias Stephen Merchant convinto ormai che la loro specie sia esclusivamente storia, inizia una lunga fuga per evitare che una ragazzina straordinaria finisca nelle mani dei temibili Reavers guidati dal criminale cibernetico Donald Pierce, ovvero Boyd Holbrook.
E, tra un serrato inseguimento diurno destinato a coinvolgere una limousine, un treno in corsa ed altri veicoli a due e quattro ruote ed forte retrogusto horror trasudante anche dalla rappresentazione grafica della violenza (con tanto di non indifferente dose di splatter), James Mangold provvede a far discostare il tutto dal decisamente più rassicurante look da spettacolo indirizzato al pubblico under 14, che caratterizza la quasi totalità dei cinecomic d’inizio terzo millennio. Del resto, il fatto che il nuovo Logan appaia più umano e vulnerabile del solito e che consideri tutte balle le imprese dei propri simili raccontate nei fumetti contribuisce non poco a trasferire la sua vicenda di sacrificio e redenzione in una dimensione maggiormente appartenente alla realtà che alla fantasia.
Al servizio di un futuristico western tutt’altro che privo di picchi altamente autoriali che, nel ribadire come un uomo non possa cambiare la sua via tracciata, sembra uscito direttamente dai crudi, sporchi e cattivi anni Settanta di Sam Peckinpah... rivelandosi uno dei più riusciti tasselli del franchise x-meniano.
Kong: Skull island
Nella Washington del 1973 un agente del Monarch interpretato da John Goodman partecipa ad un’avventura nelle profondità di un’isola a sud del Pacifico insieme ad un eterogeneo gruppo di scienziati, soldati ed esploratori; tra cui il colonnello Preston Packard incarnato da Samuel L. Jackson, la fotoreporter Mason Weaver, con le fattezze di Brie Larson, e l’ex ufficiale SAS black ops James Conrad, ovvero Tom Hiddleston.
Avventura che non tarda a mostrare in tutta la sua maestosità il gigantesco gorilla del titolo, magnificamente ricreato dalla Industrial Light & Magic e posto al servizio di un’operazione che non intende essere né un rifacimento del King Kong che, nel 1933, rielaborò tramite la allora innovativa chiave del monster movie il mito della bella e la bestia, né, tanto meno, un lungometraggio legato in qualche modo al suo riuscito remake curato da Peter Jackson settantadue anni dopo.
Infatti, tra stormi di creature volanti affrontate tramite una katana e un enorme ragno in agguato, è ricorrendo ad una storia del tutto nuova che il regista Jordan Vogt-Roberts – perfettamente consapevole del fatto che sia ormai inutile creare una lunga attesa nei confronti dell’arrivo dell’ominide più famoso della Settima arte – si concentra fin da subito sul frenetico intrattenimento a suon di elaborati effetti visivi, che non dimenticano neppure uno scontro con una piovra. Man mano che un evidente sottotesto anti-bellico emerge da un plot di base che non si distacca troppo, in fin dei conti, da quello de L’isola misteriosa di Cy Endfield tratto dall’omonimo romanzo di Jules Verne, e che, dispensando tanto divertimento e zero noia, la tanta fauna di notevoli dimensioni viene sfruttata in qualità di attrazione da grande schermo, come avvenne in kaiju eiga del calibro di Watang! Nel favoloso impero dei mostri di Ishiro Honda e Il ritorno di Godzilla di Jun Fukuda.
Fast & furious 8
Fuori il compianto Paul Walker e Jordana Brewster, il team di scatenati maniaci del volante capitanati da Dominic Toretto alias Vin Diesel apprende con grande amarezza che il loro calvo capo li ha traditi mettendosi al servizio della pericolosa cyberterrorista Cipher, interessata alle armi nucleari e cui concede anima e corpo Charlize Theron. Cyberterrorista destinata a rappresentare lo spietato villain che si trovano a dover fronteggiare ancora una volta affiancati dall’agente federale Luke Hobbs incarnato da Dwayne Johnson, trovandosi anche a dover collaborare con il ritrovato killer delle forze speciali inglesi Deckard Shaw, manifestante nuovamente i connotati di Jason Statham. Mentre torna in scena anche Kurt Russell nel ruolo dell’agente governativo stavolta affiancato da un collega dalle fattezze del figlio d’arte Scott Eastwood e al cast cui si aggiunge la veterana Helen Mirren.
Man mano che non mancano occasioni per sorridere durante lo svolgimento di un plot sempre più orientato verso le storie di spionaggio e sempre più lontano dalla tematica originaria delle corse clandestine, che F. Gary Gray gestisce alternando a dovere i momenti di dialogo (pochi) e quelli d’azione (molti), tanto da riuscire ad evitare del tutto tempi morti ed infiacchimenti narrativi.
Infatti, dinanzi ad una scorribanda newyorkese che coinvolge perfino vetture comandate a distanza e la lunga, appassionante ultima parte da antologia della celluloide action ambientata sui ghiacci della Russia con motoslitte, veicoli armati e, addirittura, un sottomarino, non vi è assolutamente tempo di chiudere occhio. Al servizio di un sequel che si contende con Fast & furious 7 di James Wan il titolo di miglior capitolo del franchise... filtrando oltretutto meglio del solito il concetto di famiglia, sinonimo di unione per i buoni e menzogna biologica nella mente di coloro che intendono diffondere il male.
Boston – Caccia all’uomo
Le vicende di una manciata di personaggi ispirati a diversi coinvolti negli eventi che ruotarono attorno al maledetto 15 Aprile del 2013, quando, durante la tradizionale maratona che la città di Boston ospita in occasione del Patriots’ Day per celebrare le battaglie di Concord e Lexington che hanno dato inizio alla Guerra di Indipendenza Americana, due terroristi cresciuti negli Stati Uniti portarono a compimento un attentato che produsse tre morti e duecentosessantaquattro feriti.
Con Mark Wahlberg nei panni di un sergente del dipartimento di polizia di Boston, Peter Berg firma uno dei suoi lavori più riusciti mettendo insieme un lodevole cast comprendente, tra gli altri, J.K. Simmons, John Goodman e Kevin Bacon. Lodevole cast volto ad arricchire gli oltre centoventi minuti di visione che, dopo una costruzione dell’attesa nei confronti della tragedia analoga a quelle che caratterizzarono film di tensione risalenti agli anni Settanta del calibro di Panico nello stadio e Rollercoaster – Il grande brivido, sfociano in una frenetica caccia ai colpevoli orchestrata tra corse, nervosismo del “dopobomba”, ritrovamenti di cadaveri e tentativi di salvataggio.
Trasformando quello che sarebbe potuto essere un banalissimo dramma tratto da fatti reali in un autentico thriller d’ambientazione prevalentemente notturna che, nonostante scontri a fuoco e inseguimenti automobilistici, rivela sempre la capacità di rimanere con i piedi per terra, senza ricorrere ad esagerazioni da spettacolarità a stelle e strisce in fotogrammi.
Scappa – Get out
Ragazzo di colore fidanzato con la bianca Rose Armitage interpretata da Allison Williams, Chris Washington alias Daniel Kaluuya viene invitato dalla ragazza ad incontrare per la prima volta i genitori di lei nella loro lussuosa tenuta fuori città.
Una situazione di partenza che, al suo esordio dietro la macchina da presa, l’attore Jordan Peele deriva chiaramente derivata dal super classico Indovina chi viene a cena?, per immergerla in un’efficace clima di mistero cui contribuiscono i silenziosi domestici neri che si aggirano nell’abitazione.
E, mentre sono in maniera evidente argomentazioni politiche tipiche degli scontri tra diverse razze e classi sociali, che hanno fatto la fortuna di molti lavori del cineasta newyorlese George A. Romero, ad emergere nel corso della oltre ora e quaranta di visione, prende forma un thriller ad ambientazione ristretta e quasi unica che non punta affatto sul sensazionalismo da effetto speciale e da creatura mostruosa pronta a balzare fuori da un momento all’altro, bensì su una lenta costruzione a base di tensione efficacemente generata fotogramma dopo fotogramma e al cui interno le pochissime concessioni all’ironia vengono poste al servizio dell’addetto alla sicurezza dei trasporti Rod, incarnato da LilRel Howery.
Con tematiche di fondo che rispecchiano in maniera evidente quelle degli stessi elaborati risalenti agli Trenta e Quaranta – dai film di Victor Halperin all’”orrore suggerito” di Jacques Tourneur e Val Lewton – da cui, indubbiamente, aveva già attinto Iain Softley per mettere in piedi il suo The skeleton key, e un pizzico di splatter relegato alla fase finale di uno dei migliori prodotti di suspense da schermo d’inizio terzo millennio... sebbene il pessimista epilogo alternativo fosse decisamente più azzeccato rispetto a quello montato nell’edizione distribuita in sala.
Kingsman – Il cerchio d’oro
A due anni dal Kingsman: Secret Service derivato nel 2015 dalla graphic novel The Secret Service di Mark Millar e Dave Gibbons, torna in scena l’Eggsy in possesso delle fattezze di Taron Egerton, reso sofisticato agente segreto dalla spia gentiluomo Harry Hart alias Colin Firth che, ora, sembra non possedere i ricordi del proprio passato.
Una seconda avventura destinata a riportare Mark Strong nei panni del Merlino già visto nel capostipite per fargli affiancare il protagonista dopo che il loro quartier generale viene distrutto e il mondo, di conseguenza, si ritrova in serio pericolo. Avventura non priva neppure di una frenetica escursione sulle innevate Alpi italiane e che, con Channing Tatum e Jeff Bridges volti ad aggiungersi al cast, tira in ballo l’americana organizzazione spionistica alleata Statesman; tra feroci cani robot e il nemico da sconfiggere rappresentato dalla Poppy incarnata da Julianne Moore, gestrice di un grosso cartello di droga e nostalgica degli anni Cinquanta. Provvedendo chiaramente a rafforzare il messaggio anti-stupefacenti ma non giustizialista trasudante dai fotogrammi; di cui è testimonianza anche un Bruce Greenwood impegnato in maniera evidente a fornire una divertente caricatura del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Perché è una terra degli yankee che sembra grottescamente voler tornare al grilletto facile dei cowboy quella presa di mira dal bentornato dietro la macchina da presa Matthew Vaughn, autore insieme a Jane Goldman di una sceneggiatura ricca di colpi di scena e capace per la seconda volta di miscelare in maniera esplosiva azione, senso dell’umorismo (con tanto di coinvolgimento di un tanto scatenato quanto esilarante Elton John imbevuto di autoironia) e, non ultimo, l’utilizzo della colonna sonora.
Smetto quando voglio – Ad Honorem
La banda di ricercatori formata da Edoardo Leo, Stefano Fresi, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Giampaolo Morelli, Rosario Lisma, Valerio Aprea e Lorenzo Lavia torna all’opera dal carcere per fermare stavolta un folle Luigi Lo Cascio intenzionato ad attuare una strage facendo uso di gas nervino. Addirittura costretti a chiedere aiuto allo storico nemico dalle fattezze di Neri Marcorè, arrivano ad escogitare un assurdo piano di fuga dalla prigione romana di Rebibbia; man mano che una serie di flashback infarciscono un’ottima sceneggiatura ad orologeria – a firma del regista stesso Sydney Sibilia insieme a Francesca Manieri e Luigi Di Capua – non priva di frecciate alla medicina italiana e agli esercenti e che riesce nell’impresa di strappare non poche risate contemporaneamente alla giusta costruzione della tensione.
Nel corso di circa novanta minuti di movimentatissima visione che, sostenuti da un cast in stato di grazia e totalmente privi di tempi morti, rischiando perfino di rendere questo terzo capitolo di Smetto quando voglio quasi più appassionante e riuscito del memorabile capostipite... chiudendo con ampio spargimento di emozioni una trilogia che aveva rischiato di manifestare segnali di stanca soltanto nel precedente capitolo di passaggio: Smetto quando voglio – Masterclass.
The void – Il vuoto
Una combriccola di persone si ritrova rinchiusa all’interno di un ospedale in cui un agente di polizia conduce un tizio ricoperto di sangue incrociato su una strada buia e isolata; man mano che ignoti soggetti incappucciati fanno la loro minacciosa apparizione all’esterno dell’edificio e che, a cominciare da Distretto 13 – Le brigate della morte, è in maniera evidente il cinema del maestro dell’horror John Carpenter ad essere omaggiato principalmente nel corso della circa ora e mezza di visione messa in piedi da Steven Kostanski e Jeremy Gillespie.
Perché, se perfino l’uso della colonna sonora e la tipologia sfruttata non possono fare a meno di ricordare le musiche utilizzate da colui che ci ha regalato Essi vivono, da un lato è possibile individuare riferimenti (soprattutto visivi) a Il signore del male, dall’altro non tardano ad entrare in scena mostruose creature dalla forma indefinibile che sembrano uscite direttamente da La cosa. Creature concepite ricorrendo alla vecchia e intramontabile scuola dell’effettistica atta a materializzare concretamente ettolitri di sangue e fuoriuscite di liquidi putrescenti, proprio come ai tempi della mitica golden age dello splatter anni Ottanta.
Mentre la vicenda prende una piega barkeriana e lo spettatore viene continuamente ed efficacemente invitato a chiedersi cosa stia accadendo sullo schermo nel corso di quello che, riuscendo nella difficile impresa di trasmettere paura e raccapriccio senza sfruttare in maniera banale a balzi improvvisi generati attraverso il sonoro, non fatica a risultare classificabile tra i migliori film dell’orrore sfornati dalla sempre più stanca produzione d’inizio XXI secolo, stritolata tra noiosi found footage e case infestate.
Wonder
Nato con delle malformazioni del cranio che non gli hanno consentito di frequentare la scuola pubblica, il piccolo August Pullman detto Auggie si trova ad iniziare le medie in quella del suo quartiere, finendo in mezzo a compagni di studi che si sforzano di scovare dentro di loro la giusta compassione e accettazione. Piccolo reso incredibilmente espressivo da Jacob”Room”Tremblay nascosto dietro un trucco eccezionalmente realistico e che, con Julia Roberts e un esilarante Owen Wilson a fargli da genitori, trova consolazione sotto un casco da astronauta e adora la saga cinematografica di Star wars.
Man mano che è una tutt’altro che banale riflessione nei confronti delle apparenze a trapelare da un insieme che, tratto da un romanzo di R.J. Palacio, il regista Stephen Chbosky gestisce spingendo lo spettatore alla commozione in più di un’occasione; supportato da una splendida, coinvolgente sceneggiatura che – firmata da lui stesso al fianco di Steve Conrad e Jack Thorne – sfodera oltretutto ironia e brillanti dialoghi, nonostante il dramma di base.
Con la sempre attuale tematica del bullismo giovanile tirata in ballo e la capacità di toccare in maniera estremamente delicata le corde del cuore ricordando che non si può cambiare l’aspetto delle cose, ma lo sguardo attraverso cui si osservano.
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