1001 Grammi

Il fardello più pesante da portare è quello di non aver nulla da portare.

Questo è il classico genere di film che fa inferocire il cinefilo e lascia perplesso-indifferente lo spettatore medio. Ergo: fighetto-leccato- “faccio tutto da me perché voglio il totale controllo sul prodotto” che si traduce, nel mondo reale, in: nessuno mi produrrebbe mai un lungometraggio che è un corto travestito e la cui trama entra in un tovagliolo ripiegato in quattro ed è commerciale quanto una retrospettiva di Bruce Lee interpretata da attori bergamaschi in costume tibetano.

A ciò si aggiunga un “piccolissimo particolare”: il cinema norvegese è talmente distante dal nostro gusto e dalla nostra esperienza cinematografica, talmente di nicchia (producono circa 20 film l’anno) che se la qualità non è altissima…si rischia il disastro al botteghino. Sarebbe, quindi, sicuramente interessante gustarselo in lingua originale per coglierne le sfumature linguistiche e non devastato dallo scandaloso doppiaggio. Passi anche l’errore in voice over “scandinàva” invece di “scàndinava” pronunciato dal fisico francese che tenta, nel modo più maldestro ed impettito della Terra di sedurre la protagonista ma la voce di lei, che sentiamo per il 90% del film, a metà tra Paris Hilton ed un cartone animato depresso…NO.

Se 21 grammi (2003) di Alejandro González Iñárritu, il cui tema è palesemente citato dal papà della protagonista (miglior attore e miglior doppiaggio italiano in questa produzione, senza esitazione), è un 8 pieno…questi 1001 grammi norvegesi oscillano intorno al 3.
Menzione speciale, quindi, per Stein Winge, regista teatrale, Cavaliere del Reale Ordine di Sant’Olaf, produttore di lirica e teatro di livello mondiale e direttore del Teatro Nazionale di Norvegia dal 1990 al 1992. Resta il dubbio che se fosse stato lui a scrivere e dirigere questo film…saremmo stati vicini al candidato norvegese agli Oscar.

Nonostante il film sia palesemente ambientato nel 2013 (lo notiamo dagli adesivi “controllo qualità” apposti costantemente ovunque), questa bellissima quanto cupa, triste e rigida scienziata norvegese, interpretata dalla bravissima Ane Dahl Torp (star televisiva di prima grandezza in patria) guida la più brutta auto elettrica mai apparsa sullo schermo e si ferma estatica di fronte ad una banale Smart, guidata peraltro dall’uomo più melenso di Francia (interpretato, addirittura, da Laurent Stocker della Comédie Française!) con il quale, lei, indovinate un po’? 

La bellezza di Parigi (inquadrata comunque con un raggio di soli 500 metri dalla Tour Eiffel) e l’attenta quanto azzeccatissima colonna sonora tentano di compensare i primi 60’ praticamente inutili quando, finalmente, si inizia a vedere un vero film…e tutto cambia. Apprezzabile, sebbene iperbasico, il livello dell’ultima mezz’ora, con una scena finale che riesce, quasi, a far sorridere.

In conclusione, stupisce profondamente che il 60enne Bent Hamer sia caduto, a distanza di 13 anni dal suo brillante Kitchen Stories (2003) che vi invitiamo a riscoprire, nella trappola della poetica esistenziale al microscopio, evidenziata dalla vita della protagonista che si destruttura dolorosamente, fotogramma dopo fotogramma, sino a rinascere come fenice nel finale. 
Ottime le intenzioni, bella la scena della pesatura delle ceneri, debole in generale la scrittura, appena sufficiente il risultato.