A Dragon Arrives!

In Iran, sebbene la censura imponga delle fortissime restrizioni alla libertà di espressione, il cinema contemporaneo sta vivendo un prodigioso periodo di rinascita, esempio ne è il tanto surreale quanto intrigante A Dragon Arrives! di Mani Haghighi. Nato a Teheran nel 1969, e trasferitosi in Canada dove conseguirà la laurea in filosofia, dopo diciassette anni di permanenza all’estero il regista tornerà nel suo Paese per dedicarsi al cinema, passione questa trasmessagli dal nonno, il famoso regista e scrittore iraniano Ebrahim Golestan.

Nelle opere di Haghighi l’ironia è un elemento costante, basti pensare alle allegorie usate per rappresentare l’ipocrisia della società persiana in Men at Work del 2006, o in Modest Reception del 2012. Questa volta, però, dando sfogo a tutta la sua fantasia, il cineasta asiatico oltre al sarcasmo mette in scena una serie di stravaganti personaggi dai quali è impossibile non rimanere catturati.

Isola di Qeshm, Golfo Persico, 1965. Babak Hafizi è il detective incaricato di indagare sul suicidio di un esiliato politico. Arrivato sul posto si renderà conto che il mistero da svelare è ben più intricato di quanto pensasse, e in gran segreto chiederà l’aiuto di Behnam, un geologo, e Keyvan, un tecnico del suono… Nel ruolo dell’investigatore Amir Jadidi è perfetto - e pensare che era un istruttore di tennis professionista -, così come lo sono Homayoun Ghanizadeh ed Ehsan Goudarzi, entrambi attori teatrali di grande spessore artistico.   

Come in un gioco di scatole cinesi, A Dragon Arrives! inizia narrando una storia, per proseguire  con un’altra e finire con un'altra ancora, così da dare vita a un intricato, e a tratti spiazzante, labirinto di idee di ogni tipo: visive, sonore e concettuali. Un magma di sovrabbondanza che nella comprensione narrativa può creare nel pubblico una certa difficoltà, tanto più che il puzzle stilistico di generi – poliziesco, avventura, thriller, dramma, commedia, falso documentario  – contribuisce a rendere l’opera ancor più destabilizzante. Tuttavia, superato l'iniziale straniamento, ci si ritroverà piacevolmente immersi in un travolgente e criptico racconto: realtà, o finzione? Dopo poche inquadrature la risposta parrebbe già ovvia, ma nella mente di ogni spettatore il dubbio tornerà a insinuarsi come un fulmine a ciel sereno.

Sembra quasi impossibile che dietro un lavoro così sconcertante, dotato di un’estetica impregnata di eccentricità pop, possa celarsi la mano di un iraniano! Già, perché in A Dragon Arrives!  Haghighi si allontana ancor più dal grande Maestro Abbas Kiarostami, offrendo un film particolarmente originale tanto nella forma che nei contenuti. Non solo, ma alcune immagini, come quella del galeone portoghese in mezzo al deserto, sono ai limiti dell’onirico: per gli occhi, una rara delizia.  Va detto che I simbolismi di cui il film è carico non risultano sempre di facile interpretazione, ma non si deve dimenticare che l’autocensura a cui, per non incappare in nefaste conseguenze, i registi iraniani si sottopongono chiede inevitabilmente allo spettatore un ulteriore sforzo interpretativo. Il drago che si nasconde nella profondità della terra e provoca improvvisi terremoti, che raffigura allora per Haghighi?  Difficile da dirsi, ma di certo “la cultura del terremoto” è parte integrante di ogni persiano, e in quanto tale estremamente evocativa. Grazie ad alcune scene il regista ricorda inoltre anche quell’atmosfera di paura imperante sotto il regime dello Scià Reza Pahlevi, paura ancora presente, purtroppo, ai nostri giorni.

Al 66° Festival di Berlino A Dragon Arrives! ha diviso la critica in due: film innovativo, o  incomprensibile pastrocchio? Al pubblico l’ardua sentenza.