
American Pastoral
Debuttare alla regia trasponendo un’opera letteraria non è proprio una delle scelte più scontate, né tantomeno una delle più semplici. Se poi il testo in questione è uno dei capolavori della letteratura americana e mondiale contemporanea, vincitore di un Premio Pulitzer, il discorso si fa ancora più spinoso. Eppure, dopo venticinque anni di solida carriera da attore (lo ricordiamo anche nel cult di Danny Boyle Trainspotting), lo scozzese Ewan McGregor esordisce alla regia proprio con American Pastoral di Philip Roth. Un romanzo quasi inarrivabile per la scrittura solida e ricchissima, per la sua fitta rete di elementi, sfumature e riflessioni sull’America a cavallo tra due epoche e in conflitto tra guerre passate e conflitti presenti, ma anche sul vivere contemporaneo, sul rapporto con gli 'altri' e sulla natura umana in generale.
Il protagonista (interpretato nel film dallo stesso McGregor), ovvero il giovane ebreo Seymour Levov, detto "Lo Svedese", è figlio del successo a tutto tondo, icona modello di quell’american dream spesso ambito e troppo spesso schivato. Un asso negli sport, Dio della bellezza, sposato con la bellissima Miss New Jersey Dawn (Jennifer Connelly), lo Svedese incarna la magia del successo e della perfezione. Concetti che, però, per loro natura tendono a essere dannatamente volubili ed estemporanei. Ed ecco allora che il crollo, la decostruzione della figura di questo Dio prestato alla terra, operata attraverso le vicende travagliate e il travagliato rapporto con la figlia, inopinata ribelle e fautrice di un terrorismo ideologico che opera contro le proprie origini, ne restituiscono invece l’uomo, ridimensionandone il bagliore e i successi, e riportandolo (come ogni altro essere umano) al terreno impervio delle sconfitta e dei fallimenti. L’idea di pace e pacificazione che infine si scontra e muore in quella di guerra.
American Pastoral di Philip Roth si erge a opera maestosa proprio nella sua capacità di delineare un mondo fittamente stratificato dove la storia, pur grandiosa e piena di riflessioni morali e sociali, non è però in fondo che una piccola parte, e dove sono poi invece l’ampiezza e lo spessore della scrittura a esaltarne i contenuti, e a farne il capolavoro.
Nella trasposizione che McGregor architetta (su sceneggiatura di John Romano) della sua Pastorale sono dunque tanti i punti che restano fuori, in quanto la necessità di passare dalla parola all’immagine riduce – come quasi sempre accade - la potenza globale e la ricchezza di mondi e riflessioni messi invece a confronto nel testo scritto (un volume denso di oltre 400 pagine). Ma il fallimento che poteva essere facilmente presagito viene invece in fin dei conti e in parte scongiurato dalla precisa messa a fuoco che McGregor sceglie per la sua opera prima.
Attraverso un resoconto sommario eppure funzionale (senz’altro meno apprezzabile dagli amanti incalliti del romanzo) McGregor riallaccia i tre momenti chiave del testo di Roth, risolvendo nella cornice narrativa della riunione di ex compagni di liceo il paradiso ricordato, la caduta, e il paradiso perduto che costituiscono genesi, evoluzione e catarsi della pastorale americana. Dal dramma famigliare che rimanda e si apre a quello sociale, poi, McGregor sceglie di focalizzarsi sul primo e mettere in luce la parabola di discesa che lo Svedese affronterà passando dai tempi d’oro a quelli di bufera, mettendo al vaglio il suo rapporto con la moglie e (soprattutto) la figlia Merry.
Nel gioco di passaggi generazionali che invece di proseguire verso l’ipotetico’ miglioramento retrocede di botto creando una falla (la giovane e ribelle Merry e la sua sete di rivolta), American Pastoral inquadra e segue il limbo famigliare, la caduta verso gli inferi dello Svedese, uomo simbolo che si carica sulle spalle tutta la colpa, la responsabilità di una figlia (ma anche di un mondo) non più all’altezza delle mirabolanti prospettive di partenza. In definitiva, non più all’altezza del Grande Sogno Americano. La carica emotiva è dunque ridimensionata nelle immagini dello Svedese che lotta disperato per tenere in piedi il suo Sogno di perfezione, la sua impresa di felicità. Ma se la portata dell’opera filmica è nettamente e non a sorpresa inferiore a quella letteraria, qualcosa di quel sogno perduto, delle contraddizioni, del malessere strisciante e del varco riflessivo magistramente ideato da Roth tra aspettative e illusioni, speranze e realtà riesce in qualche modo a trapelare.