Cannes 2017: You were never really here, film visivamente impeccabile, ma...

You were never really here della regista scozzese Lynne Ramsay, e basato su un racconto di Jonathan Ames chiude il concorso del Festival di Cannes 70. Si tratta di una chiusura senz’altro in stile, ma in generale deludente, per un film che era stato anticipato come ancora ‘in progress’, e che purtroppo mostra diversi elementi di ‘incompiutezza’. La storia è quella di un veterano di guerra (un bravissimo Joaquin Phoenix) ossessionato dalle sue terribili ‘memorie’ e dai frequenti ricordi di abusi, e che lavora per salvare giovani donne rapite e gettate nel mondo della prostituzione. Ingaggiato per riportare a casa la figlia adolescente di un senatore, si perderà in un tunnel di sangue e violenza che via via acuirà ancora di più il suo stato di ‘alienamento’ accompagnandolo nei molteplici viaggi (reali, onirici, temporali).

La Ramsay sceglie di sviluppare la sua storia tutta in verticale, tralasciando la costruzione narrativa in favore di quell’approfondimento visivo che poi è la sua cifra stilistica (una cifra stilistica che in ...E ora parliamo di Kevin trovava riscontro nella narrazione e si faceva superba). A dominare qui sono ancora una volta le variazioni e giustapposizioni cromatiche con grande predominanza del solito rosso, elemento di stacco attorno al quale ruota gran parte dell’atmosfera dell’opera. E visivamente il film, cosi come accadeva anche per il precedente, riesce ad essere magnetico, arricchito da una buona dose di scene davvero accattivanti che mettono in chiara luce il talento visionario di questa regista. D’altro canto, sembra davvero mancare qualcosa a questo film superbamente visivo con il quale – in un modo o nell’altro - si fatica a entrare in empatia, causa la mancanza quasi totale di un canovaccio narrativo che accompagni la centrifuga di immagini. I tormenti, le visioni e le suggestioni del protagonista (giustapposte e spesso anche sovrapposte) sono ciò che invece domina lo schermo per quasi l’intera ora e mezza di film (un tempo tutto sommato breve ma che appare a causa della struttura visibilmente dilatato).

Sembra quasi che dal racconto di Ames, Lynne Ramsay abbia preso un paio di elementi fondanti (una storia di abusi che si ripete e si rispecchia) e provato a costruire le immagini partendo solo da quelli. Ciò che ne (con)segue è un flusso di coscienza visivo senza punteggiatura narrativa che, in extremis, ‘attrae’ gli occhi, ma non riesce mai del tutto a entrare in contatto con il cuore. Joaquin Phoenix si cala a pieno nella devastazione psichedelica del suo personaggio, eppure il suo tormentato alter ego resta sospeso a galleggiare nel magma di idee, proiezioni, supposizioni, senza che il suo percorso possa acquisire una vera valenza di contenuti, oltre che di forma. Infine, davvero un peccato che il talento di questa regista – fatto confluire sapientemente nel lavoro precedente, si perda invece in questo You were never really here, proiezione reiterata di uno stato confusionale da cui il film stesso non sembra in grado di tirarsi fuori.