Codice 999

In Codice 999 il regista John Hillcoat mette alla prova se stesso e ne esce vincitore, realizzando un film che mostra un consapevole senso di appartenenza alla lunga tradizione del genere thriller. Lo sceneggiatore Matt Cook comprende che è necessario inserire il ritmo visivo dettato dai movimenti della macchina da presa già al livello base della scrittura, evitando di far trionfare l’andamento adrenalinico a spese della caratterizzazione dei personaggi.

I drammi personali di questi poliziotti divisi tra il bene e la dannazione eterna non sempre hanno ampio respiro nel corso della storia, eppure non fanno mai tappezzeria, nemmeno quando l’azione incalza e i brividi scivolano lungo la schiena dello spettatore. 

In Codice 999 c’è sempre un angolo squallido della crepuscolare metropoli di Atlanta che si aggrappa al vissuto dei personaggi, vi entra in simbiosi e vi coagula a poco a poco tutte le tensioni mai sopite. Gli spazi urbani ripresi attraverso la lente del realismo s’intonano così alle inquietudini esistenziali di identità doppie che, afflitte da un’assoluta mancanza di tempo, sono costrette a non fermarsi mai, inseguendo costantemente il loro destino. Ma, nessuno può andare oltre la città stessa e, allo stesso tempo, nessuno può davvero distruggere la propria parte buona per fare strada alla sua indole cattiva. Solo qualcuno vi riesce, senza provare neanche un briciolo di compassione e pietà. “Devi essere più criminale dei criminali per salvarti la pelle” sentenzia a un tratto il sergente di polizia Jeffrey Allen ed è propria in questa frase che si racchiude il senso ideale del film stesso. 

Anche se appare scontato che il pubblico parteggi con la fazione dei buoni, rappresentata dallo sbirro onesto Chris Allen interpretato da Casey Affleck (in origine la parte era stata destinata a Shia LaBeouf), è ovvio che alla fine si subisca il fascino di uomini e donne dalla dubbia morale. A ben vedere, Chris è l’unico eroe senza macchia e senza paura, perché se spostiamo lo sguardo sullo zio sergente (Woody Harrelson) facciamo fatica a rintracciare la stessa rettitudine: non che lui giochi la carta dell’ambivalenza come molti altri suoi colleghi, ma il proprio background di alcolista e tossicodipendente lo colloca su un altro piano, sebbene gli conferisca un tono di estrema umanità. 

E proprio in un film in cui predominano i personaggi maschili, un ruolo di primo piano spetta alla crudele boss Irene Vlaslov. A vestire i panni eleganti del capo della criminalità organizzata di radice russo-israeliana troviamo una bionda ossigenata Kate Winslet. Chiamata sul set dopo la defezione di Cate Blanchett, l’attrice Premio Oscar per The Reader dimostra di non aver paura di sporcarsi le mani con una figura femminile spietata con un lieve accento russo nella dizione, mossa solo dalla necessità di far uscire il suo uomo dal gulag dove è stato rinchiuso. A completare un cast già ricco di stelle, intervengono attori di primo piano come Chiwetel Ejiofor, Anthony Mackie, Aaron Paul, Norman Reedus e Gal Gadot.