Falchi

Il fatto che – nel corso dei circa novantasette minuti di visione – l’autore delle musiche originali Nino D’Angelo compaia fugacemente in qualità di autista di taxi vuole essere, con ogni probabilità, un rimando al personaggio analogo interpretato in Una notte, che segnò nel 2007 il debutto dietro la macchina da presa per il figlio Toni. Figlio che, facendo riferimento nel titolo ai poliziotti della sezione speciale della Squadra Mobile che contrastano il crimine – in borghese ed in sella alla moto – per i vicoli delle città laddove le volanti non riescono ad arrivare, concretizza attraverso Falchi il suo terzo lungometraggio di finzione (il secondo fu L’innocenza di Clara, del 2012), calando il Michele Riondino di Dieci inverni e il gomorriano Fortunato Cerlino proprio nei panni di due individui appartenenti alla appena citata categoria, immersi nella Napoli maggiormente grigia e pericolosa.

Individui dediti spesso a metodi poco convenzionali e la cui tesissima esistenza viene ulteriormente sconvolta da una tragedia personale e professionale destinata a colpirne ancor di più l’equilibrio psicologico; prima che, in preda allo sconforto e assetati di vendetta, decidano di ingaggiare una lotta senza esclusione di colpi contro una potentissima e spietata organizzazione criminale cinese. Perché, se da un lato il fatto che uno dei due intraprenda una storia sentimentale con una ragazza dagli occhi a mandorla potrebbe richiamare in un certo senso alla memoria il quasi contemporaneo Si vis pacem, para bellum di Stefano Calvagna, dall’altro risulta quasi impossibile non associare il tutto ad una rivisitazione in salsa partenopea dei melò d’azione sfornati dalla cinematografia di Hong Kong a partire soprattutto dagli anni Ottanta.

Del resto, mentre la veterana Stefania Sandrelli ricopre un piccolo ruolo e gli spettatori seriamente amanti della nostra produzione di genere non possono fare a meno di riconoscere l’audio del capolavoro Milano calibro 9 di Fernando Di Leo che fuoriesce da un televisore acceso, non manca neppure un confronto diretto a due con pistole puntate l’una contro il volto dell’altro, come in molti dei lavori di John Woo. Anche se, in verità, complice in particolar modo la prevalenza dei dialoghi rispetto al movimento a suon di pallottole volanti, è soprattutto lo stile di Johnnie To a lasciarsi avvertire all’interno di un’operazione che, propensa ad alternare in più occasioni passato e presente, intende ribadire, tra l’altro, il diritto di ognuno ad avere un’altra possibilità.

Con le ombre ed i contrasti regalati dalla curata fotografia di Rocco Marra a rappresentarne uno dei pregi insieme alla riuscita fase conclusiva, ma anche un’eccessiva lentezza di narrazione a penalizzarne in parte la piena riuscita.