Forever young

Sulle note della Alright dei Supergrass, già durante i titoli di testa è Lillo (all’anagrafe Pasquale Petrolo) il primo che vediamo in scena e che scopriamo essere un dj radiofonico di mezza età costretto a fare i conti non solo con gli anni che passano, ma anche con il giovanissimo e agguerrito nuovo rivale Francesco Sole.

Il Lillo che, tra un esilarante colloquio con un Nino Frassica sacerdote ed un altro in compagnia di un omosessuale amante del Tuca Tuca di Raffaella Carrà, finisce senza alcun dubbio per rivelarsi il più comico degli individui alla ricerca della giovinezza perduta su cui si incentra il nono lungometraggio diretto dal romano classe 1968 Fausto Brizzi, autore di Notte prima degli esami (2006) ed Ex (2009).

Perché, se qualche altra risata è garantita dalla situazione proto-Prime (2005) che si viene a creare tra l’estetista quarantanovenne Sabrina Ferilli ed Emanuel Caserio, toy boy procuratosi su consiglio dell’amica Luisa Ranieri, si punta in maniera principale alla nostalgia e al malinconico – in mezzo a vinili ascoltati al posto dei cd e la splendida Total eclipse of the Earth di Bonnie Tyler a regalare emozioni – con il triangolo costituito dalla bella Pilar Fogliati, dall’uomo di cinquant’anni Fabrizio Bentivoglio, molto più anziano di lei, e dalla Lorenza Indovina con cui lui la tradisce senza che la donna sia al corrente della sua posizione di amante.

Anche se una certa simpatia non manca di emergere neppure dalle imprese dell’adrenalinico avvocato sessantenne Teo Teocoli, appassionato di sport, convinto di possedere un fisico indistruttibile e che attende la nascita di un nipotino dalla figlia Claudia Zanella, compagna di Stefano Fresi.

Sebbene, dei quattro racconti intrecciati dalla sceneggiatura – a firma dello stesso Brizzi insieme al fido Marco Martani ed all’Edoardo Falcone regista di Se Dio vuole (2015) – sia proprio quest’ultimo, forse, a manifestarsi il più debole nel corso dei circa novantacinque minuti di visione, comprendenti nel cast anche il Riccardo Rossi de La prima volta (di mia figlia) (2015) coinvolto in un piccolo ruolo.

Circa novantacinque minuti di visione in grado, con ogni probabilità, di regalare al pubblico uno spettacolo destinato a fargli trascorrere una serata priva di pensieri dinanzi al grande schermo, ma che, pur risultando decisamente più convincente di Com’è bello far l’amore (2012), ovvero la meno riuscita fatica brizziana, sfoggia un ritmo generale a tratti incerto per approdare ad un non particolarmente esaltante epilogo... seppur non banale come si sarebbe potuto prevedere.