Fritz Lang

Fritz Lang

L’Heino Ferch di Lola corre e La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler concede anima e corpo proprio a Fritz Lang, maestro della Settima arte di origini viennesi suggerito dal titolo e il cui nome era, in realtà, lo pseudonimo di Friedrich Christian Anton Lang. Maestro in questo caso alle prese con la realizzazione del capolavoro M – Il mostro di Düsseldorf, datato 1931 e suo primo lungometraggio sonoro, e di cui il cineasta tedesco Gordian Maugg racconta l’esistenza, appunto, concentrandosi proprio sul periodo della lavorazione di quella pellicola ispirata ai delitti commessi da Fritz Haarmann e Peter Kürten.

Infatti, non lo fa mettendo in piedi il tipico biopic interessato unicamente a raccontare in maniera cronologica in fotogrammi esordi, successo e declino del protagonista, bensì lo immerge in una sorta di indagine parallela a quelle portate avanti dalle forze dell’ordine – tanto più che sospettato di essere il responsabile della morte violenta della prima moglie – sulle diverse uccisioni di povere sventurate, come se la sua macchina da presa fosse lì presente a renderlo testimone. Uccisioni che, oltretutto, tra martellate in pieno cranio, coltellate e schizzi di sangue si avvicinano non poco all’horror, rientrando tra le coraggiose scelte di un’operazione che non risparmia neppure una breve sequenza di copula ai limiti dell’hard. Perché, con il tutto girato in un bianco e nero richiamante alla memoria proprio l’epoca cinematografica in cui l’autore di Metropolis e I Nibelunghi sfornò i suoi lavori maggiormente acclamati, è anche in qualità di cocainomane ed egocentrico maniaco del sesso che è mostrato.

Man mano che non si lascia nel dimenticatoio il rapporto con la compagna sceneggiatrice Thea von Harbou qui incarnata da Johanna”L’onda”Gastdorf, che alcuni flashback ci portano alla scoperta del violento padre e dell’amata madre ebrea e che, soprattutto, le originali immagini di fatiche langhiane – a partire proprio dal dramma thriller interpretato da Peter Lorre – vengono montate insieme al resto.
Uno stratagemma narrativo che, in un certo senso, richiama alla memoria (con le dovute distanze) anche quello sfruttato dal nostro Lucio Fulci nel suo Un gatto nel cervello e che contribuisce ad accentuare il gioco intorno al fatto che, a detta del caro vecchio Fritz, i suoi film non avevano nulla a che vedere con la sua vita privata.    
Uno stratagemma narrativo atto sì a permetterci di entrare efficacemente nell’animo e nella psiche di colui che ebbe anche modo di sperimentare gli orrori della prima guerra mondiale come soldato in Galizia, ma destinato a rivelarsi non sempre capace di funzionare a dovere per l’intera ora e quarantaquattro di visione intendibile, di conseguenza, come insolito ma semplicemente guardabile esercizio di stile e nulla più.