Gli anni più belli – e il valore delle “Cose belle”

In una Roma di inizio anni ’80 Giulio e Paolo (rispettivamente Pierfrancesco Favino e Kim Rossi Stuart nella versione adulta) hanno sedici anni e sono grandi amici. Sulla loro “strada” s’infilerà presto anche Riccardo (Claudio Santamaria), “salvato” dalle grinfie di un manifestazione studentesca e ribattezzato da quel momento in poi “Sopravvissuto” (Sopravvissù). Di lì a breve entrerà poi a far parte del gruppo di amici anche la bella, solare e fragile Gemma (Micaela Ramazzotti), di cui Paolo s’innamorerà perdutamente. Nell’arco di quarant’anni di storia personale, italiana e mondiale (le rivolte, Mani pulite, la caduta del muro di Berlino, il crollo delle torri gemelle), questi quattro amici dovranno attraversare una dolorosa e tumultuosa realtà di crescita, condita da speranze immarcescibili, attese vane, realizzazioni facili ma infelici, e grandi e inaspettati ritorni. Alla fine, tra gioie e turbamenti, ardori e grandi dolori, il tempo (come per tutti) farà il suo giro, riportando attorno al tavolo di una trattoria ciò che resta di quel legame, ricordando in extremis il valore delle “cose belle” e dei legami che possono all’occorrenza fare da rete quando tutt’intorno il mondo traballa.

Tu come stai?

Gabriele Muccino, un regista sempre al centro dell’attenzione tanto per le critiche positive quanto per quelle negative, torna sul grande schermo con Gli anni più belli, una ballata nostalgica - accompagnata da tre bellissimi brani di Claudio Baglioni più quello realizzato ad hoc per il film dal titolo omonimo - che canta le gesta di una generazione perduta, smarrita, schiacciata dal peso politico, sociale e concettuale della generazione precedente (rievocata nelle similitudini e dall’ispirazione del film con il C’eravamo tanto amati di Ettore Scola), e che ha faticato a trovare una propria dimensione pratica ma anche emotiva. Nella consueta cornice molto urlata e per certi aspetti troppo abbozzata (la contestualizzazione storica passa solo attraverso le brevi immagini dei singoli fatti storici) Muccino fa emergere dal suo quartetto di amici, parzialmente sgretolato e poi ricomposto lungo la via, il dolore di “non sapere dove andare”, e la necessità spesso sottovalutata di doversi spesso aggrappare a un sincero “Tu come stai?” per andare avanti, per sopportare il peso dei fallimenti e delle frustrazioni che spesso e volentieri fanno da sfondo alle primavere che passano.

Con il suo modo imperfetto (linee narrative che funzionano meglio, altre meno, livello drammaturgico che scale e scende a seconda delle scene), e con la sua emotività piena, Muccino canta il frastuono degli anni più belli, quelli che al netto degli errori fatti, delle scelte giuste o sbagliate prese, degli amici persi o ritrovati, sono anni di movimento, di speranza, di proiezione verso un futuro migliore. E quindi non tanto nella forma a volta imperfetta quanto nel calore di questo sguardo intimo, personale, e assai condivisibile, si cela il grande pregio di questo film accorato e un po’ “sguaiato”, che parla di vita in maniera semplice ma – effettivamente - non banale.