Il caso Anna Mancini
In anticipo rispetto ai titoli di testa, due ragazze adolescenti conversano tramite Skype ricordando l’Unfriended (2014) di Leo Gabriadze, tanto più che qualcosa di raccapricciante accade poco dopo.
E, prima ancora di un notiziario televisivo, è una didascalia a metterci al corrente del fatto che la comunità di Monteforte d’Alpone fu sconvolta nel 2012 dalla misteriosa scomparsa della dodicenne Anna Mancini alias Angelica Meneghello, sulla quale cercano di far luce il giornalista Marco Bressan e il suo operatore Roberto Zanchetta, rispettivamente con le fattezze di Paolo Rozzi ed Emiliano Verzé.
È, infatti, la loro indagine a suon di interviste e ricerca di informazioni in territorio dell’est veronese che seguiamo nel corso della oltre ora e dieci di visione orchestrata dal triestino classe 1961 Diego Carli, il quale si ritaglia anche una parte nel ruolo del Monsignor Lorenzo Berardo.
Perché, ovviamente, mentre viene tirata in ballo anche la curiosa situazione di un compagno di scuola della ragazzina, divenuto del tutto immobile ed assente, non sono certo figure legate alla Chiesa ad essere lasciate fuori da una vicenda destinata a toccare toni soprannaturali.
Vicenda che, tra camera di ripresa spesso impazzita, immagini recuperate da telecamere di sorveglianza e telefoni cellulari, inquietanti rivelazioni legate ad antichi riti e messe nere, si riallaccia in maniera evidente al filone del falso documentario da found footage, esploso soprattutto in seguito al successo riscosso dal chiacchieratissimo The Blair witch project – Il mistero della strega di Blair (1999) di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez.
Un aspetto che consente di perdonare la non sempre convincente recitazione, rendendola consona al ricercato clima di realismo; man mano che, una volta oltrepassata la prima mezz’ora di racconto, cominciano a susseguirsi tragici eventi spazianti da una donna che si avventa violentemente su un neonato in una carrozzina ad un’altra che si getta nel vuoto.
Eventi di cui, comunque, non viene mostrato quasi nulla di esplicito nel chiaro tentativo di privilegiare la costruzione della tensione da autentico filmato ritrovato rispetto al sensazionalismo splatter, decisamente più adatto alle opere horror indirizzate al facile intrattenimento da brivido.
Fino ad un epilogo diverso dal solito e dal sapore metacinematografico... al servizio di un’operazione a basso costo capace di funzionare dal punto di vista narrativo – sguazzando in mezzo ad omertà e demoni pre-cristiani – e che, caratterizzata da una non disprezzabile confezione generale, testimonia che non bisogna essere necessariamente americani e finanziati da Jason Blum (produttore della saga Paranormal activity) per poter mettere in piedi analoghi elaborati di genere in pov.