Illusioni perdute – Le disillusioni di Balzac trovano voce nell’avvolgente e toccante affresco di Xavier Giannoli

Il giornalista, mio caro, è un acrobata

Lucien Chardon, ma lui preferisce il de Rubempré della defunta madre, è orfano e povero, e scrive poesie in quella dimenticata provincia parigina di Angoulême che pare non apprezzare affatto il suo talento. Suo malgrado, Lucien scrive e si strugge per Madame de Bargeton, che a sua volta si lascia sedurre da quella giovane passione nonostante sia sposata con un "partito” ben più vecchio e danaroso e corteggiata da un altro – similmente pingue - pretendente. Ma ben presto la liasion tra i due diverrà di dominio pubblico, e la campagna di Angolueme si farà troppo piccola per i due improbabili amanti. Si trasferiranno così entrambi nella grande Parigi, ma le loro strade si mostreranno presto destinate a dividersi.

Frammento fondamentale de la “Comèdie Humaine”, Illusioni perdute è romanzo che scava dentro e nel profondo di una fragilità umana che fa dell’aspettativa e dell’auto-realizzazione il suo più grande limite. Costruito attorno a un protagonista tanto bello quanto naif, Illusioni perdute è un classico che racchiude un’incredibile modernità, che tratteggia con sorprendente realismo l’ingranaggio diabolico dell’editoria, del giornalismo, della stampa, della politica, tutti schiavi delle leggi di potere e denaro. Dunque da una parte etica, ideali e purezza delle proprie passioni e dall’altra la meschinità di un sistema che non va mai a sostengo del talento, ma sempre a garanzia della legge del più potente, del più danaroso, di quello in grado di vincere (in extremis e con ogni mezzo) nel grande mercato della compravendita. Un sistema machiavellico. Perché non c’è nulla che non possa essere acquistato con la giusta quantità di denaro.

Xavier Giannoli (francese, classe 1972) mette in campo un cast notevolissimo, in cui spiccano il Lucien di Benjamin Voisin e l’Etienne Lousteau di Vincent Lacoste capaci di mettere brillantemente in scena la sfida e parabola di una passione (letteraria, giornalistica) che cede il passo al compromesso e poi non è più in grado di recuperarne il proprio senso etico e artistico. E se la candida ingenuità di Lucien prova a superare il limite posto dal proprio ideale trasformandosi in una penna sorprendentemente affilata e perfida, è la figura di Etienne a definire con boriosa spavalderia la società (di allora, ma anche odierna), e il vantaggio su campo di chi non si fa alcuno scrupolo e non guarda in faccia nessuno, di chi non fa fatica a barattare etica (umana e professionale) con mero guadagno, con smania di potere, con sfrenato arrivismo.

Lavoro, successo, amicizia e anche amore. Tutto è barattabile. E, così, all’interno di oltre 120 minuti di film che scivolano via come un seducente ballo in costume, muovendosi abilmente tra i mille volti di una Parigi buia e tentacolare e un cast eccelso in cui compaiono tra gli altri anche Cécile De France, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, e Gérard Depardieu nei panni di un editore illetterato e senza scrupoli, Illusioni perdute manifesta con avvolgente e toccante realismo incanto e disincanto della passione, dell’amore, e di ogni sentimento che sia in grado di trasportare con sé un qualche senso di purezza e candore. Una società senza luce che vive, irremovibile, nel riflesso del proprio tornaconto personale. 

La modernità di un celebre classico diventa dunque mezzo per parlare ancora una volta di sistemi fallati, ben poco virtuosi e anzi spesso perfino diabolici, dove per riuscire ad accedervi e ad avere “successo” (sempre inteso come ricchezza e poteri accumulati) ci si può – e deve – solo trasformare in una di quelle tante maschere al servizio del potere, in combutta con il più forte, a braccetto con il denaro, e cieche di fronte a ogni richiamo della morale o della debolezza umana. Il “circo esistenziale” di Balzac trova una sua voce nell’avvolgente e toccante affresco di Xavier Giannoli riportandoci con mestizia alla triste verità su una professione bella ma insidiosa, affascinante ma subdola, dove non esiste la libertà se non a sostegno di un qualche compromesso, perché, in fin dei conti, è pur sempre vero che “Il giornalista, mio caro, è un acrobata”.

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