Istanbul e il Museo dell'Innocenza di Pamuk

Quando l’immaginazione diventa realtà.

Amore e ricordo legati al (e dal) filo dell’ossessione. Un momento di felicità prolungato in eterno grazie alla memoria delle cose, degli oggetti, delle immagini, delle parole. Strade di una città mitica, Istanbul (ma anche Costantinopoli e Bisanzio), che diventano vicoli dei ricordi, e disegnano la geografia di una città in balia della Nostalgia. Quella propria, reminiscenza fitta di un mondo a confine tra oriente e occidente segnato dalla linea ideale del Bosforo; e quella di una storia d’amore (andata in scena a cavallo degli anni ‘80 tra Kemal e Füsun), raccontata e rievocata da Orhan Pamuk nel romanzo commissionatogli proprio dall’amico Kemal per riaffermare il valore di una felicità fuggevole ma determinate: “Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice”. 

Il romanzo è anche quello che dà il titolo a questo film diretto dal britannico Grant Gee e che intreccia il ricordo vero di un amore alla finzione letteraria di un testo, così come all’evidenza di una memoria incarnata da un museo, una casa trasformata in simulacro di cose, elucubrazioni, collezioni facenti capo a una stagione indimenticata di emozione e ossessione. La storia negata, proibita, eppure felicemente vissuta nella magia di un istante divenuto eterno tra Kemal e Füsun diventa così talamo sul quale sciogliere i fili del ricordo, della malinconia, di quella che i turchi conoscono bene come Huzun, ovvero l’incapacità di aspirare al successo per schivare delusioni, evitare la tragedia dei sogni infranti.
Un’introversione che sa di sopravvivenza e felicità quieta, una nostalgia che appare radicata nell’animo di questa città a cavallo di due mondi, e più tempi. 

Nel racconto di Pamuk l’interno di una boutique diventa luogo galeotto d’incontro, così come l’acquisto di una borsa sono le fiamme di un amore esplosivo, un orecchino perso nella foga della passione, e poi ancora i mozziconi di sigaretta a incarnare invece il legame doloroso con la propria amante desiderata e negata; tutte immagini che corrono all’interno della malia di questo film che prende a prestito le parole di Pamuk e la voce di Serra Ylmaz (che dà la voce ad Ayla, amica di Kemal e testimone ‘oculare’ di questa storia d’amore) per parlare di una città e un amore speciali. Il museo, luogo di culto e custode dei ricordi per eccellenza, assume il profilo pacifico di angolo di felicità consegnato all’infinità del tempo e dello spazio. Quella che tra gli anni ’70 e ‘80 era stata la casa dei Keskin, e dove Kemal Basmac? si recava di continuo per trascorrere del tempo con la sua amata Füsun e raccogliere ricordi e oggetti (tra i quali più di mille mozziconi di sigarette fumate dalla stessa ragazza) a memoria di una stagione felice, e che ora costituiscono l’ossatura del museo che si erge nel quartiere di Beyo?lu, all’angolo fra Çukurcuma Caddesi e Dalgiç Sokak. Un luogo dove andare per scoprire, ricordare, immaginare, sognare.

Grant Gee si cimenta dunque a raccontare Istanbul, l’Istanbul di Pamuk, di Kemal e Füsun, dei tanti passati, ricostruendola sullo sfondo di una storia d’amore tragica e felice, di quel legame fitto tra realtà e immaginazione, e prendendo a prestito una delle penne più celebri del nostro secolo, ovvero lo scrittore turco Orahn Pamuk (tadotto in più di 40 lingue e Premio Nobel per la letteratura nel 2006). 
Il risultato è un lavoro ammaliante, ricco di spunti, suggestioni, emozioni, un percorso intricato tra le vie reali e quelle ideali dei ricordi. 
Un modo per ricordare che la felicità è fatta di istanti che però si inseguono all’infinito. Un museo ‘atipico’, nato per celebrare unicamente la nostalgia amorosa di un tempo andato e il fascino incorruttibile di una città dai mille volti. Talvolta ridondante o sopraffatto dalla voce fuori campo del ricordo, è comunque lo sguardo particolare e originale sull’idea di città come custode di memorie e delle trasformazioni del tempo. 
Un altro interessante capitolo che s’inserisce nel filone La Grande Arte al Cinema.