Judy: La non così dorata Oz

Judy Garland, anche se la maggior parte di noi non lo ricorda, è stata una delle più grandi star di Hollywood e non solo per il suo Mago di Oz, ma anche -e forse di più- per E’ nata una stella.
La Garland, sullo schermo fin da bambina, è stata uno di quei volti che ha accompagnato il sogno americano in tempi in cui i film si vedevano, rivedevano e vedevano di nuovo per poi passare ripetutamente in televisione.
A differenza di Shirley Temple seppe spostare la sua carriera in avanti, abbracciando ruoli drammatici e non solo musicali, man mano che cresceva, ma soprattutto aveva una gran bella voce.

Ma tutto ha un prezzo e la Garland ne pago uno altissimo: la MGM sacrificò la sua infanzia sull’altare del successo. All’epoca non vi era alcuna “protezione” per gli attori-bambini e si fece ricorso a farmaci e diete ferree per rispettare i ritmi di lavorazione dello studio.
Tutti i traumi e gli abusi di farmaci portarono la Garland a sviluppare una dipendenza sia da questi che dall’alcool, le due componenti che la porteranno ad una fine prematura a soli 47 anni.

Il film di Rupert Goold si focalizza sugli ultimissimi anni dell’attrice, quando ormai in disgrazia (per i suoi eccessi che non garantivano i tempi di lavorazione sul set e per le compagnie assicurative che si rifiutavano di coprirla) è costretta a sbarcare il lunario con serate improvvisate in giro per l’America.
L’ancora di salvataggio arriva da Londra con la possibilità di una serie di concerti che la rilanceranno come cantante, ma per fare questo dovrà allentare la battaglia legale con il suo terzo ex-marito e fare i conti con i suoi fantasmi.

Come sempre è la candela che brucia dai due lati quella che fa più luce e la Garland ne è la dimostrazione.
Una donna che ha veramente subito traumi che avrebbero schiacciato chiunque, ma che non ha avuto nessuno in grado di guidarla su un percorso salvifico. La sua immagine pubblica ha completamente offuscato non l’immagine privata, ma letteralmente la vita della persona, destino che in parte l’ha accomunata con la prima figlia: Liza Minnelli.

Renée Zellweger ha il compito di restituirci questa figura complessa, comprese le sue abilità canore e la sua performance è sorprendente e di sicuro veicolo per La Statuetta.
La trasformazione dell’attrice Texana è degna del miglior Metodo Stanislavskij tanto da renderla quasi irriconoscibile. Abbandonato il “musetto” che ne fece la fortuna da Jerry Maguire in poi, la Zellweger riesce a concentrarsi sull’effettivo stato d’animo del suo personaggio che trasmette una costante malinconia di fondo, spesso disperazione, anche nei momenti più felici.

L’occasione giusta per riscoprire un talento del cinema che fu che avrebbe meritato maggior fortuna.