La legge di Ben

E siamo a quattro. Certo sarebbe stato difficile continuare in quest’ascesa registica, anche perché avremmo rischiato di avere il nuovo Orson Welles o Clint Eastwood.
La legge della notte (che poi sarebbe più che altro “vita notturna”) è un film solido, ma con molti difetti, essenzialmente legati alla sua natura ibrida. E’ strano perché Dennis Lehane, l’autore, è uno asciutto e concreto e poco si presta a voli pindarici e prolissi passaggi romantici. Basti pensare a Mystic River o Gone Baby Gone, entrambi trasposti in notevoli film.

Siamo nell’America degli anni 30, in pieno proibizionismo, ma con un piede già sulla soglia di un diverso futuro. Joe Coughlin non è il classico criminale irlandese, infatti non si considera un gangster ed ha un approccio molto diverso dagli altri “ammazzasette” che girano, ma è fermamente intenzionato a farsi la sua strada. Finirà così per andare a braccetto con boss mafiosi e spostarsi da Boston a Miami, pur di riuscire ne suo intento: soldi e vendetta.

Che Ben Affleck sappia dirigere, e pure bene, è chiaro sin dall’inizio, la parte migliore del film. La definizione del protagonista e del mondo che lo circonda è a tinte forti e ruba a piene mani dai classici come Cotton Club o Era Mio Padre. Un padre poliziotto, amicizie pericolose, capibanda che lo vogliono fuori dal giro e femme fatale, c’è tutto quello che serve.
La mano ferma di Affleck si nota nelle scene di inseguimenti e sparatorie, l’unico difetto potrebbe essere una certa sua indulgenza sulla sua performance di attore che tropo si compiace di se stesso.

I nodi vengono al pettine nella seconda e nella terza parte del film, quando ci spostiamo in Florida ed i comprimari mutano. Il gangster movie, lascia il passo a un melò romantico con addirittura qualche punta “politica”. Decisamente troppa carne al fuoco per un film che parte con tutt’altre intenzioni e finisce per soffrirne nella scorrevolezza e nella narrazione. 
Anche nel finale ci si lascia andare troppo, quando una chiusura secca avrebbe decisamente giovato.

Resta evidente che Affleck si muove a suo agio sempre di più a Boston (che poi è la città natale del suo amico Matt Damon e non la sua) piuttosto che altrove. La forza dell’attore californiano, quando si trova dietro la macchina da presa, è sempre stata la sua essenzialità, la regia asciutta e diretta e il gusto per dei personaggi pieni di chiaroscuri, cosa che in affetti anche qui Coughlin è, ma se si cerca di allargare troppo l’arazzo, se si cavalcano troppe selle, il risultato finale finisce per soffrirne.