Lazzaro Felice: un’altra piccola meraviglia firmata Alice Rohrwacher

Lazzaro ha circa vent’anni  e vive insieme a tanti altri contadini nella tenuta “Inviolata” gestita e amministrata dalla cinica Marchesa Alfonsina de Luna (Nicoletta Braschi). È un ragazzo dall’animo estremamente buono e puro, ma la sua bontà e il suo altruismo estremi sono spesso scambiati per stupidità, nonché sfruttati e piegati a propria convenienza e piacimento. Tancredi è invece un giovane nobile, figlio della marchesa e futuro erede dell’Inviolata,  che vive in un mondo tutto suo fatto di immaginazione e fuga costante dal mondo circostante. La loro amicizia, nata per circostanza più che per reale affinità, aiuterà entrambi nel percorso di maturazione. Per Lazzaro, però, sarà un sodalizio capace di attraversare il tempo e che lo porterà, poi, a ritrovarsi – quasi come frammento del passato proiettato nel futuro - nella realtà del mondo moderno alla ricerca di Tancredi e alla ‘divulgazione’ del Bene che egli stesso rappresenta.

Alice Rohrwacher torna a Cannes dopo il successo ottenuto con Le meraviglie e il Gran Premio della Giuria portato a casa nel 2014. E il suo ultimo film dal titolo Lazzaro Felice è proprio una sorta di proseguimento ideologico di quel Le meraviglie. Anche qui la dimensione rurale, disagiata e povera della periferia italiana (contadini che vivono da mezzadri anche se la mezzadria non esiste più), fa da sfondo a una storia che affronta tematiche universali come i soprusi, la prevaricazione, lo sfruttamento, ma lo fa alzando l’asticella della narrazione attraverso l’uso di quel realismo magico caro alla regista (e già presente nei film precedenti) che permette di elaborare con levità ponderata le evoluzioni di un racconto a metà tra realtà e onirismo.

Utilizzando lo stratagemma narrativo di un protagonista magnetico e cardinale come Lazzaro “Felice” (uno strepitoso Alessandro Tardiolo perfetto nella parte) la Rohrwacher disegna ancora una volta la magia scomposta di una dimensione sociale che nel suo essere metaforica si erge a rappresentare ogni forma di sopruso o ingiustizia. La purezza assoluta di Lazzaro cui anche il lupo, stando alla parabola che fa da metafora alla storia, farà salva la pelle, è infine una sorta di panacea dei peccati, un capro espiatorio capace di redimere il mondo dalle proprie brutture. E allora nel viaggio a cavallo di due ipotetici tempi storici Lazzaro diventa il punto di congiunzione tra i soprusi del passato e quelli del presente, in una catena senza soluzione di continuità in cui ogni sfruttato tende a sua volte a sfruttare il prossimo. I nobili sfruttano i contadini che a loro volta sfruttano Lazzaro, ma quando poi i nobili cadono in disgrazia sono le banche a far terra bruciata dei loro averi. Nessuna pietà per il prossimo, dunque, in un circolo vizioso che solo l’emblematico Lazzaro sarà in grado di dirottare o interrompere.

Sospeso, proprio come accadeva per Le meraviglie, in un mondo che è il riflesso magico del mondo reale, Lazzaro Felice intercetta il male del mondo e lo ruota al Bene, sfruttando la metafora e il paradosso con l’obiettivo di lanciare un messaggio di protesta, ma anche un appello pacifico e pacifista. Una regia lieve e delicata che abbraccia tutti i personaggi e in particolare l’etereo Lazzaro in una sorta di bolla narrativa e un funzionale meccanismo narrativo in cui lirismo e trascendenza segnano gli elementi chiave di quel realismo magico che è oramai la cifra stilistica di questa giovane regista (classe 1981) con talento da vendere.