Lion

Da molto tempo il cinema d’ambientazione orientale (India e affini) cerca di riportare in una confezione ‘affabile’ e di intrattenimento, i problemi di una parte del mondo decisamente più svantaggiata di quella occidentale. Ma l’Oriente che si racconta attraverso il mondo occidentale si porta appresso delle contraddizioni in termini, e la necessità di colmare il divario tra ‘ricchi e poveri’, che non possono non intaccare in qualche modo la veridicità dello sguardo. Lion – La strada verso casa del regista Garth Davis, liberamente ispirato al romanzo 'A Long Way Home' di Saroo Brierley ha il cuore doloroso di una storia vera, quella di un bambino di soli cinque anni partito dall’entroterra più povero dell’India e salito su un treno che lo porterà per ben venticinque anni lontano da casa, anzi lontanissimo, facendolo crescere e diventare adulto in Australia, adottato da una coppia di genitori desiderosi di accogliere nella loro casa uno dei tanti figli del mondo meno fortunati. Lion raccoglie quindi la sfida di una storia vera, toccante, da riportare su schermo mantenendone l’autenticità senza calcare troppo la mano sul dramma fine a sé stesso. E a vedere l’opera (presentata nella Selezione Ufficiale della Festa di Roma 2016), l’obiettivo pare centrato con riserva.

La parte più apprezzabile dell’opera prima dell’australiano Garth Davis è senz’altro l’ispirazione registica con cui mette in scena la prima parte del racconto, ovvero il ricordo di una felicità infantile che supera l’indigenza e poi lo smarrirsi di un bambino di soli cinque anni, forte ma solo, proiettato verso mondi e territori remoti, a lui sconosciuti, lontani dal legame fondante e più forte: quello con il fratello maggiore e la madre.

A segnare invece la parte più canonica, eppure lineare nel suo essere conforme alla vicenda narrata, appare invece tutto il secondo segmento del film, il racconto dell’adozione in terra australiana, della crescita e della graduale nascita della necessità di ritrovare, in qualche modo, la via di casa perduta anni e anni addietro.  In questa seconda parte del film, il retaggio di matrice occidentale (incluso il cast di volti noti: Nicole Kidman, Dev Patel, Rooney Mara), prende il posto di ciò che ai nostri occhi è invece molto meno noto, ovvero la fatica e il sacrificio di chi è nato in luoghi dove tutto è meno ovvio, scontato, facile. Ed è in questo punto di transizione che il film di Davis un po’ aggira e un po’ infila la trappola del film di denuncia in cui si cela l’anima da intrattenitore. In fondo, il film commuove perché la storia è quella vera di una vita espropriata alle proprie origini, e alle quali tende disperatamente a far ritorno.

Di contro, invece, è pur vero che da Millionaire in poi la realtà indiana degli slums, dei bambini che vivono di spazzatura, di miseria ridotta allo stremo, sta ancora cercando di riconciliarsi con il linguaggio del nostro ‘ricco’ cinema occidentale nella speranza di trovare una propria voce, o quanto meno un buon compromesso. E in questo obiettivo, anche il Lion di Davis, un po’ riesce e un po’ fallisce.