Orecchie

Presentata in Anteprima mondiale al Festival di Venezia 73 nella sezione biennale college, l’opera seconda di Alessandro Aronadio (Due vite per caso) dal titolo Orecchie è un film sorprendente e originale sul concetto di smarrimento e sul senso di alienamento moderni. In un bianco e nero che riadatta il neorealismo del passato a un realismo e surrealismo contemporanei, il regista palermitano disegna l’on the road sgangherato e onirico del suo protagonista, antieroe “per caso”, catapultato in una giornata kafkiana, segnata da un terribile (e inspiegabile) fischio alle orecchie e dalla scomparsa di un amico di cui sì è persa (o mai avuta) memoria.

Un post-it lasciato sul frigo dalla compagna "Luigi è morto. P.S. Ho preso la macchina", segnerà l’ora X di una 24 ore concitata, un “fuori orario” contraddistinto da una serie rocambolesca di eventi e costellato dal panorama a dir poco straniante di personaggi folli, o (quanto meno) incomprensibili alle orecchie sibilanti del protagonista. Attorno a  questo sentire deformante l’opera di Aronadio raduna tutti gli elementi della sua allegoria, dei suoi paralogismi, del suo tentativo di argomentare una realtà alterata attraverso l’orecchio alterato del suo protagonista (l’ottimo Daniele Parisi qui al suo esordio cinematografico). La vicina invadente, il medico minaccioso e quello “burlone”, l’impiegata ostile, l’amico opportunista, la madre adolescenziale, lo stimatissimo professore ridotto a nerd, una carrellata di maschere che non faranno che acuire il disturbo sensoriale del protagonista, sempre più proiettato nella girandola di follie regalate dal mondo disordinato che lo circonda. La lunga serie di incontri sopra le righe, inclusi il colloquio con la direttrice di un prestigioso giornale per il quale vorrebbe lavorare (il cameo di una sempre superba Piera Degli Esposti) e la conversazione con il parroco (uno stravagante Rocco Papaleo) che dovrebbe celebrare il funerale del suo amico Luigi, sarà però anche rivelatrice di altro, delle cause reali di quel fischio alle orecchie che sembra essere un problema fisico ma, invece, è tutt’altro. La fatica di rapportarsi con gli altri, di entrare in sintonia con loro, di comprenderne le loro ‘normali e quotidiane follie’, muta infatti il microcosmo umano che ci circonda in una serie di creature grottesche e deformanti, che infine altro non sono che la proiezione surreale del nostro vedere, del nostro sentire, e di noi stessi.

C’è della filosofia e dell’astrattismo, ma anche molto pragmatismo in quest’opera seconda del regista Alessandro Aronadio. Nella parabola soprattutto metaforica compiuta dal protagonista, il regista siciliano descrive bene lo smarrimento in una realtà contemporanea dove la paura (di fare, di rischiare, di sbagliare, e anche di amare), relega le nostre azioni a un microcosmo di solitudine pressante, che poi diventa disturbo cronico, un ronzio acuto e persistente che gradualmente esaspera il nostro senso di alienazione. Negli archetipi e nelle caricature umane che Aranodio mette in campo, si realizza così quel gioco di specchi deformanti che rivela bene il senso ultimo del costante estraniamento dalla realtà, disorientamento kafkiano che anima il film. Di contro, è nelle piccole frasi rivelatrici, nei frammenti di verità pronunciati dai tanti personaggi abbozzati, che si delineano invece gli strumenti per contrastare questa sorta di patologia dell’asocialità. Perché se è vero che credere in qualcosa ci permette di avere meno paura, è in quel necrologio all’amico ‘immaginato’ e nel finale commovente dedicato alla speranza e alle vite migliori, che Orecchie riscatta in extremis il suo protagonista, consegnandoci infine la chiave per la 'guarigione' e per una vita migliore. Un piccolo cult che farà parlare di sé, e che rivela il tocco originale e misurato di un giovane regista italiano (classe 1975) da tenere d’occhio (e d’orecchio).