Robinù

Da piccoli pensavano che i loro atti di delinquenza fossero un semplice gioco.

Sono i baby-boss della camorra, immortalati dalla camera del giornalista e conduttore televisivo Michele Santoro che, lontano dalle sue trasmissioni AnnoZero e Servizio pubblico, decide di incontrarli nell’ambito del peggior degrado del Sud Italia per porli al centro del suo documentario cinematografico, il cui titolo fa chiaramente il verso a colui che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Un Sud dove la miseria economica, da sempre, sembra aver portato anche a quella ancor più drastica e preoccupante degli ideali e dei valori, come testimoniano le inquietanti dichiarazioni di ragazze che considerano i cresciuti in strada più svegli e forniti di cuore e sentimenti rispetto a coloro che lavorano o frequentano quotidianamente la scuola.  Ragazze spesso agli arresti domiciliari per spaccio, ma che raccontano di non essere nate per vendere droga, in quanto lo fanno esclusivamente con il fine di poter dare da mangiare ai propri figli piccoli.

Perché, mentre facciamo conoscenza anche con non più giovanissime donne dedite alla prostituzione e non manca neppure un curioso transessuale tra gli intervistati, viene addirittura spiegata la procedura attraverso cui preparare la cocaina da diffondere, nel corso della quasi ora e quaranta di visione.

Quasi ora e quaranta che, tra chi ammette di aver preso la prima pistola in mano a soli diciassette anni e chi si sente padrone del mondo quando è in possesso di un kalash, tanto da paragonare la sensazione all’avere Belén Rodriguez nelle proprie braccia, mira ad offrire il racconto diretto e senza alcuna mediazione dei propri protagonisti e dei familiari devastati dal dolore.

Come pure una madre in lacrime – analogamente ad una delle situazioni mostrate da Michael Moore nel suo Fahrenheit 9/11 – cui è stato ucciso il figlio; man mano che il campionario umano di tutt’altro che adulti individui che hanno evaso qualunque obbligo scolastico, non parlano correttamente la lingua italiana e, spesso, sfoggiano denti già devastati dai pesanti vizi che li hanno resi tossici, incarna un popolo ridotto a carne da macello sotto gli occhi indifferenti delle istituzioni.

Sebbene le loro più o meno toccanti rivelazioni si trovino al servizio di una interessante inchiesta filmata che, in fin dei conti, appare più adatta ad una fruizione sul piccolo che nel grande schermo (considerando il percorso professionale del suo autore, è anche lecito che sia così).