Sibyl – Justine Triet e il composito ritratto di donne sull’orlo di una crisi di nervi

Sibyl (Virginie Efira) fa la psicoterapeuta ma sogna da sempre di fare la scrittrice. Il suo passato irrisolto e le sue tante dipendenze fanno ancora capolino nella sua vita, e la donna, oramai non più così giovane, sembra ancora ben lontana dalla via della risoluzione. La decisione di lasciare in tronco le sedute e tutti i suoi pazienti per dedicarsi totalmente a un nuovo romanzo sembra infatti nascondere le ombre di un passato che tornerà a riproporsi sottoforma di fantasmi, ricordi, proiezioni in bilico tra realtà e fantasia, fatti e ossessioni. Poi, l’incursione inaspettata nella sua vita di una nuova “paziente” a cui Sibyl non riuscirà a dire di no, darà la sterzata finale a quella sorta di immersione infernale nei meandri della psicologia, della scrittura, della femminilità, dell’empasse di maternità negate o fatalmente mortificate. Attraverso le vicissitudini della sua Margot (Adèle Exarchopoulos), attrice fragile alle prese con un film da girare e un grave fardello esistenziale da metabolizzare, Sibyl intraprenderà un viaggio esistenziale e speculare nella sé stessa più fuori controllo, e in quel deforme specchio percettivo la donna vedrà e prenderà spunto per scrivere delle tante ossessioni e dipendenze (alcol, amore, sesso, espressione artistica) che tratteggiano la sua (solo apparentemente) figura di donna realizzata. E così lo sfaldamento esistenziale di una psicologa aspirante scrittrice che cerca di rimettere insieme le vite degli altri mentre osserva cadere a pezzi la propria si va infine a mescolare alla dimensione narrativa di un film da girare e un libro da scrivere. Vita e arte che convergono nella finale deriva esistenziale.

Una, nessuna, centomila

La regista francese Justine Triet (La bataille de Solférino, Tutti gli uomini di Victoria), firma il suo terzo lungometraggio con Sibyl, ritratto di donna contesa tra i suoi tanti demoni e la sua voglia di realizzazione e compiutezza. La Triet mette in campo una serie di personaggi e registri che non sempre aiutano la messa a fuoco di quest’opera, e che anzi spesso la confondono tra piani temporali ed esistenziali che vanno a mescolarsi e sovrapporsi.

Ma se in principio Sibyl tende a esaurirsi nel punto di vista morboso e autoreferenziale della protagonista, è nella seconda parte del film che questa tragedia di donne tutte ugualmente smarrite e disperate offre la sua voce e i suoi spunti migliori. Costretta sul set a improvvisarsi attrice e poi regista di fronte al crollo psicologico delle altre donne che la circondano, Sibyl finisce per incarnare quella fragilità emotiva e capacità di improvvisazione tipica del sesso femminile. E il suo graduale cadere a pezzi, crollare, vittima delle tante debolezze, assume nella seconda parte dell’opera tutto il peso della contraddizione in termini di una psicologa ridotta in pezzi, e aspirante artista rinnegata dalla sua stessa arte.

In più di un frangente la Triet sembra perdersi dietro al filo di Arianna delle tanti ossessioni e tematiche tirate in ballo, e la scrittura (a cura di Arthur Harari e della stessa Justine Triet) spesso pecca di eccessi ed eccessive involuzioni, ma è nei momenti “on stage” di massima aderenza tra realtà e rappresentazione (in primis, le riprese a Stromboli e la scena del party di presentazione del film), tra i mille volti pirandelliani di donne, che la Triet riesce a catturare nell’occhio delle sue attrici (Efira, ma anche l’ottima Sandra Hüller) la bellezza di una disperazione femminile che rinasce o prova a rinascere, ogni volta, dalle proprie ceneri. Dopo un tradimento, una separazione, un aborto o il dolore sordo di un fallimento. Una, nessuna, centomila.