Silence, salvate il soldato Ferreira

Solo nell’ultima intensissima inquadratura, un dettaglio tanto piccolo quanto, inversamente, importante e significativo, apprezziamo, e comprendiamo, il valore del silenzio (quel “Silence” che dà il nome al film tratto dall’omonimo romanzo di Shusaku Endo scritto nel 1966). Il silenzio che si contrappone alla fede, sbandierata e manifestata, fino alle estreme conseguenze, che invece è la protagonista che permea tutta l’opera.

Scorsese torna così ai temi della fede e della religione dopo L’ultima tentazione di Cristo girato nel 1988. Fu proprio durante una proiezione del film che l’Arcivescovo di New York di allora  gli regalò una copia del libro di Endo. Libro che, come lui stesso afferma, analizzava temi da sempre presenti nella sua vita di cattolico, sin da giovane profondamente coinvolto nella pratica religiosa. Temi che ritroviamo in questo lunghissimo film che racconta del viaggio da parte di due missionari portoghesi che nel XVII secolo si recano in Giappone alla ricerca del loro Padre Spirituale, Ferreira, di cui non si avevano più notizie.

Un viaggio che si snoda tra scenari impervi e primitivi fino a condurre solo uno di loro alla scoperta di una verità di difficile accettazione ed applicazione. Un viaggio fisico che è anche un percorso spirituale, doloroso e desolante, durane il quale le ragioni della fede cozzano cruentemente con quelle della ragione e della sopravvivenza. I missionari sono perennemente posti in conflitto tra la necessità di professare la propria fede (siamo nel 1600, il proselitismo era un imperativo irrinunciabile, è bene inquadrare questo concetto per comprendere tanta ostinazione) e quella di abiurarla per salvare le vite dei convertiti. Questo è il tema centrale del film, ben chiosato dalle autorità del luogo, i maggiorenti giapponesi, i quali all’ennesimo rifiuto di abiura così sentenziano “Il prezzo della vostra gloria è la loro sofferenza”, riferendosi alla sorte dei convertiti. I giapponesi, atroci aguzzini, ma anche fini pensatori….

Non è per ragioni di fede che contrastano – anche con raffinata violenza – il tentativo di cristianizzazione del loro paese messo in atto dai missionari. Le loro sono ragioni filosofiche (abbiamo già il buddismo, il Giappone non va bene per il Cristianesimo) che si miscelano ad altre più squisitamente politiche/economiche (portoghesi, spagnoli, inglesi, olandesi: solo con un Paese faremo affari). La fede dei missionari , a cui danno corpi nervosi e fattezze oblique i fisici trasformati di Andrew Garfield e Adam Driver, è continuamente messa alla prova, incrollabile anche davanti alle più atroci sofferenze, per sfaldarsi, però, di fronte alla prova del fallimento della missione di evangelizzazione. E sarà proprio il ritrovato Padre Ferreira (Liam Neeson vestito come un Jedi….) che, come una sorta di Walter Kurtz del XVII secolo, comprende e si fa uno con la realtà del popolo che era venuto a convertire, a rivelare ai suoi ex discepoli la sua verità.

In questo contesto si snoda la narrazione della tormentata missione dei due sacerdoti che Scorsese – affidandosi ai tempi della fidata montatrice Thelma Shoonmaker – diluisce in oltre 160 minuti di visione. Ma sono tempi che, a parte il primo impatto di sconcerto durante il quale non appaiono chiarissimi i ruoli e le relazioni, scorrono con grande intensità pur nella prevalenza dei dialoghi sull’azione, ma con la dolce lentezza di un ruscello solo increspato dalla corrente. Sono lunghi momenti impreziositi da una fotografia caraveggiesca che qualifica gli ambienti dei poveri contadini abbagliati dalla fede, e dalle precise ed accurate scenografie (e costumi) realizzate da Dante Ferretti. Poi, il genio, perché tale è Scorsese, mostra il suo pennello quando, ad esempio, incornicia emblematicamente la scena di un tradimento con tre canti di gallo o dirigendo gli attori giapponesi (Issei Ogata, Yosuke Kubozuka su tutti) cogliendone quelle sfumature da maschera teatrale – istrionesca e pittoresca– tipiche dell’arte di quel Paese. La poesia, però, serpeggia e ci conquista in quei lunghi attimi in cui il silenzio diventa unico e sconvolgente  protagonista.