Smetto quando voglio - Ad honorem: fuga di cervelli

È alla notte dell’incidente automobilistico notturno che vide coinvolto lo specialista in chimica computazionale Alberto Petrelli interpretato da Stefano Fresi che ci si ricollega prima di ritrovare in carcere il ricercatore Pietro Zinni alias Edoardo Leo, il quale, come appreso nel finale di Smetto quando voglio – Masterclass, ha intuito che il folle Walter Mercurio intende attuare una strage facendo uso di gas nervino. Il Walter Mercurio che, entrato in scena nel citato sequel di Smetto quando voglio, possiede i connotati di un Luigi Lo Cascio che lo stesso Zinni e la sua banda di ricercatori improvvisatisi pusher devono assolutamente fermare, tanto da arrivare ad escogitare un assurdo piano di fuga dalla prigione romana di Rebibbia. 

Banda di ricercatori ancora una volta formata dall’archeologo Arturo Fantini, dall’esperto in macroeconomia Bartolomeo Bonelli, dall’antropologo Andrea De Sanctis, dall’anatomista teorico Giulio Bolle, dall’ingegnere meccanico Lucio Napoli, dall’avvocato Vittorio e dai latinisti Mattia Argeri e Giorgio Sironi, ovvero Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Giampaolo Morelli, Rosario Lisma, Valerio Aprea e Lorenzo Lavia, stavolta addirittura costretti a chiedere aiuto allo storico nemico Murena, di nuovo incarnato da Neri Marcorè. Il Murena di cui, come pure per Mercurio, viene fatta luce sull’oscuro passato attraverso una serie di flashback (con tanto di evidente omaggio al Godzilla di Gareth Edwards); man mano che chiare frecciate alla medicina italiana e agli esercenti farmaceutici infarciscono un’ottima sceneggiatura ad orologeria comprendente anche il ritorno del non più operativo ispettore di polizia Paola Coletti, dalle fattezze di Greta Scarano.

Sceneggiatura a firma del regista stesso Sydney Sibilia insieme a Francesca Manieri e Luigi Di Capua e che, tra sindrome del pene occulto (!!!) e situazioni come quella in cui De Sanctis tenta di ottenere il permesso per fare una telefonata all’interno del penitenziario, riesce nell’impresa di strappare non poche risate, contemporaneamente alla giusta costruzione della tensione.

Senza contare una esilarante rappresentazione teatrale e Bonelli che si ritrova accidentalmente dell’esplosivo in corpo... nel corso di circa novanta minuti di movimentatissima visione che, sostenuti da un cast in stato di grazia e totalmente privi di tempi morti, rischiando perfino di rendere Smetto quando voglio – Ad honorem quasi più appassionante e riuscito del memorabile capostipite, chiudendo con ampio spargimento di emozioni una trilogia che aveva rischiato di manifestare segnali di stanca soltanto nel precedente capitolo di passaggio.