Swiss army man

Contenitori e oggetti vari galleggianti in acqua e riportanti scritti su essi messaggi di richieste di aiuto anticipano l’entrata in scena di un barbuto Paul Dano che, come il Robinson Crusoe nato dalla penna di Daniel Defoe e il Chuck Noland interpretato nel 2000 da Tom Hanks all’interno del Cast away di Robert Zemeckis, si trova abbandonato su quella che sembrerebbe essere un’isola deserta sperduta nel Pacifico.

Un Paul Dano che non si ritrova sulla propria strada né Venerdì, né un pallone cui attribuire il nome di Wilson, ma che, proprio nel momento che lo vede impegnato a tentare il suicidio impiccandosi, scorge un cadavere sulla riva del mare. Cadavere in possesso dei connotati di Daniel Radcliffe e che, immediatamente scoperto essere pieno di gas all’interno, riesce addirittura a sfruttare per cavalcare le onde – come fosse una moto d’acqua – grazie proprio alla potenza delle flatulenze.

Una trovata decisamente assurda e che, come sicuramente voluto dai due autori Dan Kwan e Daniel Scheinert (ma si firmano con lo pseudonimo Daniels), provvede fin da subito a catapultare lo spettatore nel viaggio surreale per tornare a casa che il protagonista intraprende, appunto, in compagnia della salma. Perché non solo beve dalla sua bocca l’acqua filtrata attraverso il corpo, ma vi condivide più o meno divertenti conversazioni; man mano che la lodevole performance dell’ex Harry Potter del grande schermo sembra richiamare alla memoria determinati zombi della cinematografia risalente agli anni Trenta e Quaranta.

Del resto, complice anche la sequenza che vede coinvolto un pericoloso orso, non è neppure un certo retrogusto horror a risultare assente nel corso della oltre ora e mezza di visione che, tra grotteschi momenti a base di erezioni e dialoghi riguardanti la masturbazione (ma non privi di omaggi a Jurassic park), include nel cast anche la Mary Elizabeth Winstead di Die hard – Vivere o morire.

Oltre ora e mezza di visione che, probabilmente allegoria relativa alla solitudine dettata forse dalla difficile accettazione di se stessi, forse dall’emarginazione conseguente alla diversità,  trasuda amicizia virile (od omosessualità più o meno latente?) fotogramma dopo fotogramma, individuando nei suoi due ottimi interpreti un non indifferente punto di forza.
Tanto che, sebbene l’insieme – continuamente sospeso tra la realtà e quella che sembra quasi una dimensione onirica – si presti a più interpretazioni e non lasci bene intendere quali siano le sue precise intenzioni, grazie alla tutt’altro che sciatta regia riesce nell’impresa di conquistare lo spettatore senza annoiarlo, ma arrivando, anzi, anche a toccargli occasionalmente il cuore.
Sempre se si mostra propenso ad abbandonarsi ad una tanto folle quanto originale operazione fuori dagli schemi.